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“La resistenza oltre le armi. Sarajevo 1992-1996”. Quando la cultura salva la vita

E’ passato più di un anno dall’inizio della pandemia e no, non è andato tutto bene come ci dicevamo dai balconi. Sono passati tredici mesi e a morire non sono stati solo i malati di Covid-19 ma anche la vitalità, la creatività, l’inventiva di intere generazioni.

Da più di un anno continuano a ripeterci che siamo in guerra ma dimenticano di dirci che la guerra si combatte con tante armi diverse. Tra queste, la cultura, l’arte, ciò che contrappone la bellezza alla brutalità di una condizione sofferente.

Leggendo il libro “La resistenza oltre le armi. Sarajevo 1992-1996” di Andrea Caira e Arianna Cavigioli edito da Mimesis, è impossibile non fare un parallelismo tra quanto accaduto ormai trent’anni fa a pochi passi da casa nostra e quello che sta accadendo adesso. “Guerre” diverse, certo. Condizioni altrettanto differenti, ma forse da quel passato così brutale e dimenticato è possibile trarre qualche insegnamento per questi tempi difficili.

Il libro di Caira e Cavigioli rappresenta una piccola enciclopedia di storia della resistenza. Non quella armata, ma quella culturale messa in atto dai cittadini di una Sarajevo assediata e bombardata per quattro lunghi anni.

L’arte e la cultura, sotto le bombe e i cecchini, divennero un’arma di resistenza, “un’arma mortale alla quale gli assedianti non seppero mai rispondere, […] un rifugio dalla guerra”. Gli artisti, contrariamente a quanto si crede nel nostro paese dove sono spesso visti come quelli “che ci fanno tanto divertire”, nella Sarajevo assediata hanno giocato un ruolo centrale per la sopravvivenza fisica e mentale. Riuniti spesso in collettivi, in netta contrapposizione all’isolamento prodotto dalla guerra, gli artisti sarajevesi con i loro spettacoli, con i loro concerti, le trasmissioni radiofoniche hanno spesso sopperito alla mancanza di acqua, di cibo, di corrente elettrica. Alla faccia di chi continua a ripetere ancora oggi che “con la cultura non si mangia”.

Nella Sarajevo assediata l’arte non era un lusso ma una necessità, non era vittima della distruzione della guerra ma strumento di ricostruzione sociale. Dove le bombe lasciavano macerie, l’arte ricostruiva comunità. Alla morte e alla continua esposizione ad essa, la cultura contrapponeva voglia di vivere. Per Emina Gegić, appena sedicenne quando iniziò l’assedio, la “paura più grande non era di morire o di rimanere mutilata ma di diventare ignorante”.

Il libro restituisce tutta la ricchezza della produzione artistica di quegli anni, tra enormi difficoltà materiali dovute all’assenza di soldi e di attrezzature. E lo fa raccontando una lunga serie di esperienze prodotte tra il 1992 e il 1996 nel campo del cinema, della musica, del teatro, delle arti visive e della (contro)informazione. Nonostante l’assedio, i cittadini di Sarajevo poterono assistere a oltre 3100 eventi culturali, praticamente più di due al giorno.

Ed è proprio nel 1993, in pieno assedio, che nasce il Sarajevo Film Festival, destinato nei decenni successivi a diventare importante punto di riferimento a livello europeo. Nei dieci giorni di quella che potremmo definire “edizione zero” furono oltre 20 mila le persone che assistettero alle proiezioni. Un numero significativo che ancora oggi farebbe impallidire molti eventi simili, con la differenza che allora i sarajevesi rischiavano la loro vita prima, durante e dopo aver visto il film. Il costo del biglietto era spesso di sette sigarette, uno dei beni più preziosi ai tempi, o di una candela, come nel caso delle rappresentazioni teatrali che necessitavano di un minimo di luce.

Il cinema aveva il compito non solo di testimoniare quanto stesse avvenendo per le strade della capitale bosniaca, nel tentativo di rompere l’assordante silenzio su quella assurda violenza, ma anche quello di raccontare al mondo intero la forza della resistenza popolare dei cittadini, con le loro paure e la loro voglia di vivere.

“Atto di resistenza politica e gesto di solidarietà” erano anche i concerti organizzati sulle rovine dei palazzi o ai funerali. Il 23 marzo 1993 si svolse al Kamerni Theatre 55 probabilmente il più grande concerto di tutto l’assedio, con la partecipazione di tutte le band rimaste in città. Un coraggio che non lasciò indifferenti molti musicisti nel mondo come nel caso dei Desert Storm che nel 1994 organizzarono un rave nella capitale bosniaca, o ancora come Bruce Dickinson, cantante degli Iron Maiden che si recò clandestinamente in città per un concerto.

Particolarmente significativa e fertile fu anche la produzione teatrale. Per sfuggire alle bombe, gli spettacoli venivano spesso organizzati nelle cantine delle case o addirittura negli ospedali. Per Vedran Fajković “recitare era un atto di ribellione, […] un modo di combattere”. Per farlo, il modo migliore di evitare rappresaglie era diffondere la notizia di un evento attraverso il passaparola. Pubblicizzare troppo lo spettacolo avrebbe infatti dato la possibilità al nemico di organizzarsi e colpire nel momento di massimo afflusso. Al di là dell’eroica produzione quotidiana portata avanti dai teatri e dall’Accademia di Arti sceniche, il momento mediaticamente più significativo fu lo spettacolo Aspettando Godot organizzato dall’attrice statunitense Susan Sontag, replicato per ben venti volte.

A questa estrema varietà artistica e capacità di adattamento alle condizioni prodotte dalla guerra, contribuirono anche le arti visive che proprio dalle rovine e dai resti di una città distrutta traevano maggiore ispirazione. Nacque così quella che prese il nome di “arte di guerra”. Tra le esposizioni più curiose e anche più irriverenti e provocatrici verso il nemico, merita una menzione Outrunning the Wind di Enes Sivac che appese le sue opere lungo le rive del fiume Miljacka, esattamente dove i cecchini erano soliti sparare per uccidere a sangue freddo persone inermi.

Infine, fondamentale fu il ruolo esercitato dai giornali e dalle radio, tanto nell’informare i cittadini di quello che accadeva al di là delle colline quanto nel comunicare all’esterno la resistenza popolare. Un compito portato avanti con estremo coraggio dalla redazione di Oslobođenje (Libertà) che continuò il suo lavoro negli scantinati del palazzo costantemente bombardato dagli assedianti, rimanendo chiusa anche una settimana senza poter uscire. Il giornalista equivaleva a tutti gli effetti ad un soldato. La sua penna aveva lo stesso peso di una mitragliatrice e, attraverso vari escamotage, era capace di diffondere informazioni vitali alla popolazione.

Due elementi contribuirono a rendere unica e veramente ribelle questa immensa produzione artistica: l’ironia e l’opposizione a qualsiasi nazionalismo. Per i sarajevesi ridere era solo un altro modo di mostrare i denti, di farsi beffa della propria condizione e soprattutto dei propri nemici. E in questo, così come nell’assedio, erano tutti accomunati senza distinzione di etnia o religione esattamente il contrario di quanto alimentato e sostenuto dalle élite politiche dei paesi coinvolti nella guerra.

La cultura come arma quindi, di resistenza e di re-esistenza. Un’arma capace di mantenere viva una società, di costruire legami affettivi oltre qualsiasi forzata differenziazione. Un’arma capace di sostenere quelle militari senza esserne alternativa o contrapposta e, soprattutto, senza essere sganciata dalla realtà.

Leggere, oggi, il libro di Caira e Cavigioli può essere utile non solo per conoscere l’eroismo e il coraggio della Sarajevo assediata, ma anche per comprendere quanto abbiamo perso in questi tredici mesi di silenzio totale, di teatri e scuole chiuse, di sperimentazioni abbandonate. Sintomo di una società sempre più sopita incapace di riprendere le armi in mano.

Immagine: Pixabay

Chi è Marco Siragusa

Nato a Palermo nel 1989, ha svolto un dottorato all'Università di Napoli "L'Orientale" con un progetto sulla transizione serba dalla fine della Jugoslavia socialista al processo di adesione all'UE.

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