Lenin, un mito di cui fare a meno

Dalle nostre tiepide case, dove alla sera troviamo cibo caldo e visi amici, capita talvolta di vagheggiare eroismi d’antan, uomini d’acciaio capaci di tenere nel pugno le sorti del mondo, dimenticando come tali eroici furori si siano immancabilmente tradotti in violenza, privazione, fame, arbitrio.

Centocinquant’anni fa, il 22 aprile 1870, nasceva Vladimir Il’ič Ul’janov, poi noto col nome di Lenin, socialista e rivoluzionario di ascendenza ebraica e di famiglia borghese, un fratello impiccato dallo zar, agitatore politico eccezionale, teorico del marxismo, arrestato ed esiliato in Svizzera, politicamente isolato brigò e disbrigò, finché dopo la Rivoluzione del 1905 decise di riparare a Parigi, insieme ad altri esponenti bolscevichi, e da qui polemizzò con i menscevichi finché la Prima guerra mondiale non gli riaprì le porte della madrepatria.

Spedito a Pietrogrado dai tedeschi, i quali gli versarono decine di milioni di marchi, ancora brigò e disbrigò rovesciando – è bene ricordarlo – non il sanguinario regime zarista (che era già caduto mesi prima) ma un governo provvisorio, di stampo socialista e liberale, con il quale tradì ogni patto portando i suoi bolscevichi al colpo di stato. Certo poi si sottomise al voto per l’Assemblea costituente, già previsto e promosso dal decaduto governo provvisorio, ma fu mero opportunismo: nell’unica votazione libera della storia sovietica, i bolscevichi ottennero il 24% dei voti mentre la vittoria andò ai socialisti rivoluzionari, che presero il 40,4%. Ma un simile dettaglio non scoraggiò certo Lenin che, il 5 gennaio 1918, lasciò che l’Assemblea si riunisse e mentre Viktor Černov, presidente dell’assemblea, stava discutendo dell’abolizione della proprietà privata, la guardia bolscevica sciolse la Costituente aprendo a un conflitto in cui morirono più uomini di quanti caddero sul fronte orientale della Grande Guerra.

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La guerra civile russa, insieme di più guerre civili e di una serie di conflitti internazionali, portò al comunismo di guerra, al terrore rosso, ai lager, alle esecuzioni sommarie. Tutti i nemici di classe, reali o immaginari, furono tolti di mezzo. E Lenin era lì, che girava in Rolls Royce, sulla putredine dei cadaveri. L’abolizione del mercato portò al disastro economico: per sfamare le città fu necessario attuare requisizioni forzate di generi alimentari nelle campagne, alle quali seguì, anche per ragioni climatiche, la terribile carestia del 1921-22.

La militarizzazione di tutti i settori dell’economia e del lavoro permise ai bolscevichi di controllare l’esercito, le aziende, i sindacati. Ben poco della rivoluzione spontanea dal basso, che riempì la bocca dell’agitatore, rimase in piedi quando assurse al potere. Tutti i provvedimenti vennero calati dall’alto, attraverso la coercizione. A Lenin si deve anche la nascita della Čeka, polizia politica protagonista di circa 250mila esecuzioni sommarie tra il 1918 e il 1922 che, mutando nome, rimase nei decenni il simbolo dell’oppressione violenta su cui si fondava la cosiddetta dittatura del proletariato.

La dittatura non è certo la colpa più grande di Lenin, che le dittature – anche temporanee – erano all’ordine del giorno all’epoca. Lenin era figlio del suo tempo, in questo. Ma lo scioglimento degli altri partiti, la subordinazione di sindacati e soviet al partito, lo scioglimento delle correnti interne, la soppressione delle libertà di stampa e di sciopero, gettarono le basi di un regime totalitario destinato ad angariare non solo il popolo russo, ma tutte le nazionalità sottomesse.

Certo Lenin fu uomo di ingegno, di calcolo, di coraggio. Per i sostenitori della sua eredità politica, oggi come in passato, egli fu un eroe del proletariato, un prometeo della giustizia sociale. Ma all’atto pratico, e fin dalle premesse, appare difficile sostenere che il comunismo sovietico abbia realizzato un mondo – se non il migliore possibile – almeno decente in cui vivere. Lenin, con il colpo di stato dell’ottobre 1917, uccise l’unica possibilità che la Russia abbia mai avuto di avviarsi verso una democrazia costituzionale, reiterando il carattere tirannico del potere russo e consegnandolo ai giorni nostri, di nuovo in altre forme.

La giustizia sociale, i diritti delle classi oppresse, la riduzione delle disuguaglianze, sono sacrosante istanze di lotta politica – finanche violenta – ma non in Lenin hanno trovato compimento, se non rendendo tutti uguali nell’oppressione, nell’ingiustizia, nell’arbitrio del potere. Le romanticherie sul personaggio – dall’inesistente vagone piombato, all’invenzione dell’assalto al palazzo d’Inverno – restituiscono il mito. Un mito imbalsamato eppure ancora vivente. Un mito di cui oggi, carte alla mano, si sente poco il bisogno. Mentre attualissima resta la necessità della giustizia sociale, quella che nessuna dittatura potrà mai garantire.

 

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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