A gigantic painting of Lenin addressing the crowd upon his return to Russia during the Russian Revolution. Note the disaffected bourgeoisie, military officers, and priests in the lower right. The painting hangs in the Museum of Political History.

L’ottobre bolscevico, quando morì la speranza di una democrazia russa

Cent’anni fa, oggi, tramontava qualsiasi orizzonte di sviluppo democratico in Russia. La presa del Palazzo d’Inverno, sede del governo provvisorio, avvenne in una notte confusa e febbrile, mentre sul futuro del paese calavano le tenebre in attesa di un’alba nuova, un sole d’avvenire che mancò di sorgere.

La rivoluzione bolscevica di ottobre fu l’ultimo atto di un lungo processo di rivoluzione che, dagli eventi del 1905, passando per il febbraio 1917, fece della Russia il teatro del più grande esperimento politico e sociale del secolo scorso. La notte del 7 novembre 1917, a Pietrogrado, prese il potere il bolscevismo e quella notte sarà ricordata, nell’immaginario poi magistralmente fissato da Ėjzenštejn, come il punto più alto della Rivoluzione d’Ottobre. Ci vorranno però quattro anni prima che il bolscevismo abbattesse ogni dissenso, in una fase di assestamento che si concluderà solo nel 1921, quando anche l’ultima jaquerie contadina antibolscevica, quella nella provincia di Tambov (la più vasta, e quella con il più netto profilo politico) sarà soffocata nel sangue.

Un movimento plebeo

Poiché se è vero che tutta la rivoluzione russa, dal 1905 al 1917, fu un movimento plebeo, sorto da un malcontento profondo e duraturo, causato dalla cieca brutalità dell’autocrazia imperiale, è anche vero che questo malcontento non trovò uno sbocco naturale nella rivoluzione bolscevica e che ampie fette di quella plebe, secolarmente sottomessa, rifiutò di appoggiare i suoi ipotetici salvatori. E si dovette ammazzarla, la plebe, per farla trionfare in nome del rosso fiammante leninismo rivoluzionario. La scaturigine della successiva barbarie sovietica, del soffocamento delle libertà individuali, della modernizzazione a colpi di stakanovismo massacrante e sfruttamento delle masse operaie in nome, persino, di un patto col nazismo – poi nascosto sotto il tappeto della guerra patriottica – ebbene, tutto il tremendo destino della Russia moderna era già presente all’inizio, quando fu chiaro che l’élite bolscevica considerava la plebe – il popolo, il proletariato – alla stregua di bestiame da macellare sull’altare del comunismo realizzato.

Febbraio, la rivoluzione spontanea

Ma c’è stato un capitolo, di questa lunga vicenda rivoluzionaria, in cui il popolo fu davvero padrone del proprio destino, senza intermediari, senza sacerdoti della rivolta, che lo guidassero verso radiose ipotesi di futuro: fu il capitolo che passa sotto il nome di Rivoluzione di Febbraio. Fu un’insurrezione popolare che nessuno aveva previsto e che colse impreparati anche i futuri leader rivoluzionari: Trockij era a New York, Stalin in Siberia, Lenin a Zurigo. E proprio lui, Lenin, che l’agiografia successiva descriverà come acuto osservatore dei più reconditi accessi del malessere popolare, saltò sulla sedia dallo stupore quando seppe che i russi stavano facendo la rivoluzione da soli, senza bisogno di lui e della sua illuminata guida. Un paio di mesi prima aveva dichiarato, durante un’assonnata assemblea di giovani operai zurighesi, che “noi vecchi non vedremo le battaglie decisive dell’imminente rivoluzione” e che toccava a loro, ai giovani, raccogliere il testimone.

Il collasso dell’autocrazia zarista avvenne per una rivoluzione “senza capi, spontanea e anonima”, come scrisse lo storico William H. Chamberlin, uno dei più acuti conoscitori della rivoluzione russa, oggi caduto in oblio. E furono le donne a dare la stura alla rivoluzione quando, sempre a Pietrogrado, il 23 febbraio del calendario giuliano (l’8 marzo del calendario nostro) un pacifico corteo di operaie, studentesse e signore della borghesia, sfilò per celebrare la giornata internazionale della donna, mentre migliaia di operai in sciopero protestavano per la mancanza del pane. Lo zar, inetto e debole, usò la violenza e l’esercito si ammutinò, portando infine alla sua abdicazione. Si aprì la fase più fresca della rivoluzione russa, quella di febbraio.

Una parentesi democratica

Il potere statale fu assunto da un governo provvisorio formato da esponenti della Duma, il parlamento russo, che abolì la pena di morte, emanò un’amnistia generale, concesse libertà di stampa e di riunione, annullò le discriminazioni di religione, di razza e di classe, adottò il suffragio universale, e si impegnò per far eleggere un’assemblea costituente. Una fase di brusca, e incontrollata, libertà politica che si trovò presto sotto la doppia minaccia dell’esercito, i cui generali auspicavano la dittatura e la fine della parentesi democratica, e dei soviet, il Consiglio dei soldati e degli operai, che divenne un potere indipendente dal governo statale rifiutandosi di partecipare ai lavori della Duma. L’unico socialdemocratico a partecipare al governo provvisorio presieduto dal principe L’vov fu  Aleksandr Fëdorovič Kerenskij.

Kerenskij era allora una delle figure più prestigiose della «democrazia rivoluzionaria»: presidente del gruppo parlamentare dei trudoviki (social-rivoluzionari moderati) prima della rivoluzione, aveva pronunciato dai banchi dell’opposizione fieri discorsi contro il regime zarista e fuori della Duma si era reso celebre partecipando come avvocato a diversi processi politici in cui difese molti bolscevichi. Nelle giornate di febbraio Kerenskij aveva mantenuto i contatti con l’opposizione liberale ed era stato l’unico esponente socialista nel comitato della Duma. Nel luglio del 1917 venne nominato primo ministro, succedendo a L’vov, incapace di raccogliere una maggioranza parlamentare. Presto però l’affaire Kornilov e le pressioni degli ambienti nazionalisti, spinsero il governo provvisorio di Kerenskij all’angolo, la guerra intanto volgeva al disastro, e il ruolo dei soviet si faceva preminente.

La fine della libertà politica 

A dare la spallata decisiva a questa parentesi di democrazia fu quell’ometto che si credeva già fuori dalla storia e che a Zurigo parlava nelle sale semivuote dei circoli operai. Quando si accorse che in Russia stavano facendo la rivoluzione senza di lui, confidò al suo diario la propria disperazione: tornare in Russia era necessario, ma come? “La Gran Bretagna non ci lascerà passare. E non si può passare certamente dalla Germania”. E invece la Germania garantì il treno blindato e il passaggio sicuro, ma non solo: dagli archivi del Comitato Centrale del PCUS sono emersi, nei primi anni Novanta, i documenti che dimostrano come il kaiser tedesco, Guglielmo II, regalò ai cospiratori bolscevichi decine di milioni di marchi. I conti correnti e i tracciati dei versamenti, recentemente citati in Lenin on the train, di Catherine Merridale, vennero pubblicati, nel 1993, dal settimanale tedesco Stern: il 18 giugno del 1917, per esempio, un magnate dell’industria della Ruhr spedì 350 mila marchi su un conto a nome di Lenin in Svezia, mentre l’8 gennaio del 1918 un versamento della Reichsbank arrivò a Leon Trotskij. Il 3 marzo dello stesso anno la Germania ottenne i risultati sperati: la Russia bolscevica firmò a Brest-Litovsk una pace separata con il nemico tedesco.

La Rivoluzione d’Ottobre, celebrata come momento chiave nel percorso di emancipazione delle classi lavoratrici, può essere vista oggi come la pietra tombale sulla libertà politica dei russi. Il colpo di stato bolscevico ha interrotto per sempre il percorso di democratizzazione che, tra molte contraddizioni, aveva preso avvio con la Rivoluzione di Febbraio. Senza i soldi e l’interessato aiuto tedesco le cose sarebbero andate diversamente. Forse la Russia avrebbe potuto sperimentare una via verso la democratizzazione che tenesse in considerazione le istanze social-democratiche presenti nel paese. Forse il destino della Russia, segnato da cent’anni di autoritarismo, prima nella forma sovietica e oggi in quella putiniana, sarebbe stato diverso.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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