elezioni Crimea

Se Putin perde consensi in Crimea

Le elezioni locali, che domenica 8 settembre si sono tenute in numerose regioni e repubbliche della Federazione russa, si sono svolte anche in Crimea, penisola ucraina occupata dalla Russia nel 2014. Non riconosciute dall’Ucraina e dalla comunità internazionale, i risultati delle elezioni rappresentano un altro segnale preoccupante per Mosca, dimostrando ulteriormente come a cinque anni di distanza l’effetto della famosa ‘primavera russa’ che a suon di richiami patriottici aveva visto impennarsi il sostegno per il presidente, Vladimir Putin, sta lentamente scemando. Il partito di potere, Russia Unita, ha perso voti e seggi sia nel parlamento della repubblica, sia in quello di Sebastopoli, città che, insieme a Mosca e San Pietroburgo, detiene lo status di “città d’importanza federale”, funzionando in pratica come una regione a sé stante.

Russificazione

Negli ultimi cinque anni il processo di russificazione della penisola è continuato a passi spediti. Da una parte la Crimea è ormai pienamente sotto la giurisdizione russa e tutti i cittadini residenti nel marzo 2014 sono diventati di fatto cittadini russi tramite procedure agevolate di concessione della cittadinanza che ha portato all’emissione di circa due milioni di passaporti.

Il secondo vettore di russificazione è stato quello economico. Dopo la sua annessione, la penisola è diventata il principale destinatario di fondi statali e di sovvenzioni della Federazione russa. Circa il 70% del suo budget è coperto da sussidi provenienti dal governo centrale di Mosca, che continua a drenare miliardi di rubli dalle altre regioni colpite nel frattempo dalla recessione economica. Staccata dalle principali arterie di rifornimento di acqua ed elettricità che provenivano dall’Ucraina, la Crimea è ora totalmente dipendente da Mosca. Tra i principali progetti, ad esempio, sono stati realizzati negli ultimi anni due centrali elettriche a Sebastopoli e Simferopoli oltre a una serie di impianti idrici capaci di mitigare, almeno in parte, la crisi provocata dall’interruzione dei rifornimenti decisa da Kiev. Sullo sfondo, da ricordare, la costruzione del ponte sullo stretto di Kerč, che lega non solo economicamente ma anche simbolicamente la Crimea alla Russia.

Un peso per la federazione

Le sanzioni, introdotte nei mesi successivi all’annessione, continuano a rimanere il principale caposaldo della politica di Bruxelles e Washington. Anche se il loro effetto appare difficile da quantificare, in concomitanza con il calo del prezzo del greggio, hanno comunque sferrato un duro colpo all’economia russa. Infatti, alcuni recenti studi dimostrano come la Russia abbia perso almeno il 10% del proprio potenziale economico rispetto alla situazione del 2013. Le sanzioni, inoltre, hanno avuto un impatto decisamente negativo sul clima finanziario, causando una drastica diminuzione di investimenti diretti esteri non solo in Crimea, ma anche nel resto della federazione.

Nella penisola cosi come nel resto della federazione il reddito medio reale rimane stagnante, l’inflazione continua a crescere e una serie di impopolari riforme (come l’aumento dell’età pensionabile) sono destinate a colpire ulteriormente le fasce più deboli della popolazione.

Dall’euforia alla delusione

Non dovrebbe sorprendere, così, che a cinque anni di distanza il prezzo dell’azzardo geopolitico del Cremlino si stia ora dimostrando sempre più alto. Anche se le elezioni nei regimi caratterizzati dall’autoritarismo elettorale hanno un significato diverso rispetto alle democrazie, ci danno nondimeno un’indicazione simbolica sulla loro stabilità. Anche se il declino del partito di potere, Russia Unita, sembra un trend nazionale, in quella che viene considerata dal Cremlino la culla del rinato patriottismo russo, la sua parziale debacle porta un significato ancora più alto.

Se nel voto per il rinnovamento del parlamento della repubblica di Crimea, Russia Unita perde oltre 16% di consensi rispetto alle precedenti elezioni del 2014, guadagnando comunque il 54%, è dalla città d’importanza federale di Sebastopoli che arrivano indicazioni più preoccupanti per il regime. Nonostante i numerosi tentativi del Cremlino di prevenire la sconfitta elettorale nel luogo simbolo per il regime, con la sostituzione del leader locale del partito prima, e con il licenziamento del governatore (in carica dal 2016) poi, Russia Unita ha perso quasi la metà dei voti rispetto al 2014 (77%), conquistando solo il 38,5%. E anche se grazie ai risultati nelle circoscrizioni uninominali il partito avrà comunque la maggioranza nel parlamento locale, a Mosca dovranno ora fare i conti non solo con i scarsi risultati elettorali, ma anche con una crescente spaccatura nell’élite locale, prima che si trasformi in una vera e propria guerra tra la fazione del primo governatore della città, Sergej Menjajlo e l’ex leader del parlamento, Aleksej Čalyj.

Il declino dell’effetto Crimea   

Più in generale, le elezioni in Crimea insieme a molti risultati in altre regioni sembrano preannunciare la fase finale del lento sgretolamento del contratto sociale tra il Cremlino e la società che ha caratterizzato la seconda fase del regime di Putin. Giocando sul ricordo – ancora vivo – delle difficoltà sociali degli anni Novanta, infatti, in cambio del totale sostegno politico le autorità avevano promesso stabilità sociale e la restituzione di quell’orgoglio nazionale che va di pari passo con il ruolo di grande potenza sulla scena internazionale. L’annessione della Crimea aveva segnato il punto massimo di questo tacito compromesso, simbolicamente espresso dall’aumento vertiginoso del supporto popolare nei confronti del presidente, con il picco degli 86%.

Quello basato sull’avventurismo in politica estera sembra però oggi un consenso sempre più precario. Mentre secondo alcuni recenti sondaggi solo il 39% della popolazione oggi vede l’annessione della Crimea come un fattore positivo (rispetto al 67% del 2014), anche la popolarità di Putin sembra in costante calo, con il tasso di approvazione per il presidente russo ai minimi storici (67%). Anche se i numeri hanno un significato piuttosto relativo, nel contesto russo evidenziano simbolicamente l’inizio della fine della luna di miele tra regime e società iniziata con il “ritorno a casa” della penisola strappata all’Ucraina. Con il lampante esempio delle proteste a Mosca di quest’estate, tra le mura del Cremlino iniziano probabilmente a guardare con preoccupazione al possibile ritorno di un periodo di contestazione sociale che aveva caratterizzato l’inizio del terzo mandato presidenziale di Vladimir Putin.

Chi è Oleksiy Bondarenko

Nato a Kiev nel 1987. Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l'Università di Bologna (sede di Forlì), si interessa di Ucraina, Russia, Asia Centrale e dello spazio post-sovietico più in generale. Attualmente sta svolgendo un dottorato di ricerca in politiche comparate presso la University of Kent (UK) dove svolge anche il ruolo di Assistant lecturer. Il focus della sua ricerca è l’interazione tra federalismo e regionalismo in Russia. Per East Journal si occupa di Ucraina e Russia. Collabora anche con Osservatorio Balcani e Caucaso.

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