UNGHERIA: Rimossa la statua di Imre Nagy. Perché?

Il destino comune di ogni monumento è che i cani finiscono per pisciare sul piedistallo, diceva Sándor Márai, scrittore ungherese di quelli che hanno attraversato il Novecento, secolo breve impetrato in statue che si volevano eterne ma che, nel torno di pochi decenni, sono spesso cadute vittima della storia, rimosse, distrutte, simbolo di un passato che non si voleva mai più rivedere ma che, ogni tanto, ripassa.

È il caso della statua di Imre Nagy, primo ministro durante la Rivoluzione del 1956, evento cardine della moderna storia ungherese. Ebbene, il monumento alla sua memoria è stato rimosso da piazza dei Martiri, dove era stato collocato nel 1996. Un bel monumento, amato dai turisti che spesso nulla sapevano di quel signore coi baffetti che puntava lo sguardo verso il parlamento. Il significato retorico del monumento appariva però ben chiaro: l’ometto, dal suo stallo di bronzo, mira al futuro. Un futuro di libertà simboleggiato dal parlamento, una libertà nazionale di cui Nagy è stato, a suo modo, un artefice.

Una chiave di lettura che non piace al governo conservatore in carica. Secondo il partito di maggioranza, Fidesz, e il suo primo ministro, Viktor Orban, quel monumento celebra un comunista, ovvero uno che ha oppresso la nazione. Sul fatto che il regime comunista sia stata una sciagura per l’Ungheria, come per tutti i paesi dell’Europa centro-orientale, non ci piove. Ma Nagy?

Beh, il caso è complesso. La sua vicenda politica, ben riassunta da Stefano Cacciotti in “Imre Nagy tra passato e presente“, si presta a chiaroscuri – negli anni Trenta fu un agente sovietico – ma fu a lui che il paese si rivolse quando, il 23 ottobre 1956, fu acclamato primo ministro dando così inizio ai tredici giorni della Rivoluzione Ungherese. Tredici giorni eroici e drammatici di cui Nagy fu protagonista indiscusso, concedendo l’amnistia per i dimostranti, abolendo il sistema monopartitico e negoziando il ritiro delle truppe sovietiche dall’Ungheria. Ma fu inutile, i carri armati sovietici entrarono a Budapest. Nagy, dopo aver minacciato l’uscita dal Patto di Varsavia, mandò un accorato messaggio all’occidente. Parole che dicono molto dell’uomo e dell’epoca:“Qui parla il Primo ministro Imre Nagy. Oggi all’alba le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale con l’evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico d’Ungheria. Le nostre truppe sono impegnate nei combattimenti. Il governo è al suo posto. Comunico questo fatto al nostro paese e al mondo intero”.

Dopo la repressione sovietica, Nagy verrà condannato a morte e giustiziato il 24 aprile 1958.

Era un comunista? Sì, certo. Come avrebbe potuto esser primo ministro nel 1956 se non fosse stato comunista. La storia ha le sue trappole, ma dentro quella trappola Nagy si è mostrato libero e coraggioso. A ucciderlo è stato l’apparato, è stata l’Unione Sovietica, è stato quel comunismo disumanizzante che, a fine anni Ottanta, nuovi movimenti hanno sfidato e vinto. Tra questi il Fiatal Demokraták Szövetsége (Fidesz), l’alleanza dei giovani democratici fondata dal venticinquenne Viktor Orbán nel 1988. La Rivoluzione del 1956 fu allora, per i democratici e liberali degli anni Ottanta, un punto di riferimento, un’eredità da raccogliere, simbolo di una nazione indomabile, viva malgrado l’oppressione. Lo stesso Orban, nel suo primo discorso pubblico, parlò di quella Rivoluzione. E quella Rivoluzione deve molto a Imre Nagy.

Dunque, perché accanirsi contro la sua statua? Il governo ha dichiarato di voler “riportare Budapest com’era prima del comunismo”, rimuovendo ogni traccia di quel passato. Nagy sarebbe, per il governo, un agente del KgB e non un patriota. Soprattutto Nagy è un simbolo per i socialisti di oggi i quali, con il funambolismo tipico della politica, hanno cercato di appropriarsi della sua figura. Una figura che fece comodo anche al giovane Orban quando nel 1989, di ritorno da Oxford dove era andato a seguire alcuni corsi grazie a una borsa di studio della Soros Foundation, tenne un discorso durante la cerimonia di riabilitazione di Nagy chiedendo, come lo stesso Nagy trent’anni prima, che le truppe sovietiche lasciassero il paese. Quel discorso lo fece diventare un personaggio politico noto a livello nazionale segnando l’inizio della sua carriera.

Il problema quindi non è Imre Nagy, né si tratta di una questione di restyling urbano (se l’obiettivo è quello di riportare Budapest a com’era negli anni Trenta, perché non eliminare anche la statua di Ronald Reagan o quella di Bud Spencer?). Al governo non interessa un fico secco della “Budapest com’era una volta” ma di proseguire nell’operazione di modellamento della cultura nazionale in senso nazionalistico, paternalista e autoritario.

Nagy operò scelte che andarono in direzione opposta, abolendo il monopartitismo e chiamando gli ungheresi a essere padroni del proprio destino. Un esempio scomodo per un leader che sta imponendo una dittatura della maggioranza, occupando con il suo partito tutti i settori chiave della vita pubblica ungherese. E se il primo passo in tal senso fu la riforma della Costituzione, seguita dalle leggi sull’informazione, sulla scuola, sul teatro, sulla famiglia, fino alla modifica del sistema elettorale (atta a favorire la vittoria di Fidesz), ecco che la rimozione della statua di Nagy diventa l’ennesimo piccolo tassello di una più vasta strategia volta ad affermare quella che lo stesso Orban ha definito “democrazia illiberale”.

La statua di Nagy verrà ricollocata in piazza Jaszai Mari dove, fino al ’45, c’era un memoriale per le vittime del Terrore Rosso poi sostituito, con l’occupazione sovietica, da un monumento a Marx ed Engels. Come a dire che Nagy era pur sempre uno di quella pasta, un assassino rosso, un sostenitore del regime, un carnefice della nazione. Aveva davvero ragione Sándor Márai, i cani stanno pisciando sul piedistallo.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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