Ungheria Orban

Cosa rischia l’opposizione nell’Ungheria di Orbán

Tra multe milionarie, sospensione della cittadinanza e minacce di provvedimenti penali l’opposizione in Ungheria vive un momento difficile. Ma è Bruxelles il vero nemico di Orbán.

70 milioni di fiorini ungheresi (circa 170mila euro) è la multa comminata ai deputati del movimento politico Momentum per aver protestato in Parlamento il 18 marzo scorso contro l’emendamento di legge (poi regolarmente votato) che vieta la libertà di espressione. 24 milioni per Dávid Bedő e 12 milioni per Ákos Hadházy che, tra gli altri, hanno a vario titolo acceso petardi colorati, lanciato volantini e intonato l’inno nazionale russo. Sono stati accusati di aver provato a ostacolare il regolare svolgimento di una seduta parlamentare e di aver messo in atto comportamenti pericolosi per l’incolumità e la salute degli altri deputati. Le proteste sono proseguite nei martedì successivi con l’occupazione dei ponti nel centro città, ma la severità della multa la dice lunga sul clima politico che si respira in Ungheria.

Il 14 aprile scorso, poi, il Parlamento ha votato un emendamento di legge che consente di sospendere la cittadinanza ungherese a coloro che hanno un secondo passaporto non-UE e rappresentano una minaccia per l’ordine pubblico e per la sicurezza nazionale. A denunciarlo è Dávid Korányi, consigliere politico, membro di European Council of Foreign Relations e fondatore della ONG statunitense Action for Democracy, residente a New York. La sospensione della cittadinanza ungherese è un ulteriore tassello alla sistematica violazione dei valori fondanti dell’UE da parte dell’Ungheria. Non sono valse né le procedure di infrazione né le sospensioni di fondi a fermare Orbán, tanto che da più parti si invoca l’applicazione dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea. Si tratta della clausola di sospensione che prevede la possibilità di revocare temporaneamente i diritti di adesione all’Unione europea (come il diritto di voto in seno al Consiglio europeo) qualora un Paese violi gravemente e persistentemente i principi su cui si fonda l’UE.

Non si trova in una situazione migliore neanche Péter Magyar, il leader di Tisza, il partito di opposizione che attualmente riscuote il maggior numero di consensi tra gli ungheresi. È più di un anno che Magyar è bersaglio di una violenta campagna diffamatoria che lo vede protagonista di feste ad alto tasso alcolico, molestie e aggressioni nei confronti dell’ex fidanzata. In particolare, circolano voci di alcuni capi di imputazione che potrebbero gravare a suo carico, come l’aver gettato nel Danubio il telefono di un uomo che lo stava filmando. Comportamenti che, se sanzionati, lo vedrebbero in carcere con una pena fino a due anni. Ma l’accusa più grave che potrebbe pendere su Péter Magyar è quella di aver ricevuto finanziamenti dall’estero; fatto che, secondo la legge ungherese, prevede una pena fino a tre anni di reclusione. Certo, da parte sua, Magyar può far valere l’immunità parlamentare di cui gode in qualità di deputato del Parlamento europeo, ma quello che si profila all’orizzonte non è un futuro roseo.

Sì, perché il vero nemico di Orbán non sono i partiti di opposizione, ma Bruxelles. Da alcuni giorni la città è tappezzata di manifesti che invitano i cittadini a diffidare di quei leader europei che sostengono apertamente la causa ucraina come la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, e il capogruppo del partito popolare europeo, Manfred Weber. “Non lasciare che decidano al posto tuo”: recita il manifesto con le gigantografie dei volti di Von der Leyen, Weber e Zelensky. Nel frattempo il governo ha dato il via ad una consultazione popolare, che ha tutto l’aspetto di un referendum, ma che non ha alcun valore giuridico. Si chiede agli ungheresi di esprimere il proprio parere sull’adesione dell’Ucraina all’Unione europea marcando il sì o il no su una simil-scheda elettorale spedita via posta. Naturalmente le ragioni del no sono state ampiamente diffuse dai canali di comunicazione: secondo il governo Orbán l’ingresso di Kiev in UE causerebbe danni economici talmente gravi da mettere in pericolo la produzione agricola, i posti di lavoro, la sicurezza nazionale e, non da ultimo, limiterebbe i fondi UE a disposizione di Budapest.

Quello che sta succedendo in Ungheria è un chiaro esempio di smantellamento delle istituzioni democratiche e di edificazione mattone su mattone di un sistema politico in cui vige un permanente stato di emergenza. E così si vieta il Pride per preservare l’integrità sessuale dei bambini, si revoca la cittadinanza a coloro che potrebbero mettere in pericolo la sicurezza nazionale, si multa e si condanna chi “attenta” all’ordine pubblico. È un sistema già collaudato: nel 2018 infatti era stata la volta del magnate e filantropo George Soros, bersaglio di una aggressiva campagna mediatica. Va da sé che oggi Soros, classe 1930, non rappresenta più il nemico numero uno.

«Una società che vive in un perenne stato di emergenza non può essere una società libera» dice Giorgio Agamben. Se sacrifichiamo le libertà democratiche per ragioni di ordine pubblico siamo condannati a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza, linfa vitale per il paradigma amico-nemico. Orbán, particolarmente abile in questo, ha saputo indicare senza alcuna ombra di dubbio chi sono i nemici della patria, dentro e fuori il Paese. Ma non è ancora arrivato il momento di metterli a tacere. Per i nemici interni il punto di svolta saranno le prossime elezioni politiche nazionali in programma tra un anno, aprile 2026. Più arduo il discorso sui nemici esterni, il cui destino è legato a complesse trame geopolitiche internazionali. Ma se tutto andasse come nei progetti del leader magiaro non sarà Bruxelles a espellere l’Ungheria, ma Budapest a lasciare l’Unione europea che non è stata in grado di arginare il fenomeno Orbán.

https://telex.hu/kulfold/2024/10/09/von-der-leyen-orban-fejere-olvasta-hogy-magyarorszag-embercsempeszeket-engedett-szabadon

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