RUSSIA: Le elezioni in una democrazia illiberale

Le elezioni regionali non suscitano solitamente particolare interesse da parte degli osservatori e analisti internazionali, soprattutto se tenute in quella che viene considerata una democrazia illiberale. Così, le elezioni di vario livello che si sono tenute in 82 degli 85 soggetti federali della Russia lo scorso 10 settembre, complice anche un esito che appariva piuttosto scontato, sono state praticamente ignorate. In verità, in un paese grande come la Federazione Russa anche le elezioni regionali, soprattutto ad appena sei mesi dal rinnovamento della carica presidenziale (18 marzo 2018), possono offrire indicazioni significative e spunti di riflessione sui futuri appuntamenti elettorali del paese.

Alcuni dati

Come prevedibile, a farla da padrone un po’ su tutto il territorio nazionale è stato il partito presidenziale, Russia Unita (RU), i cui candidati si sono guadagnati la maggioranza in tutti i parlamenti locali e, soprattutto, hanno conquistato tutti i posti da governatore in ballo. A seguire, un po’ ovunque, l’opposizione leale a Putin rappresentata dai comunisti, dal Partito Liberal Democratico e da Russia Giusta. Poco incoraggianti risultano, però, i dati sull’affluenza. Nei 16 dei 17 soggetti federali dove si è votato per la carica di governatore (nella Repubblica di Adighezia è stato invece il parlamento locale a determinare la nomina) l’affluenza si è attestata intorno al 35% (dai 71,2 della Mordovia ai 27,2 dell’Oblast’ di Kirov), mentre dove si votava per il rinnovamento dei parlamenti regionali o municipali, la partecipazione è stata di gran lunga più bassa con i soli 12,7% di Vladivostok e 15% di Mosca. Anche se le elezioni locali non hanno mai scaldato i cuori degli elettori russi, il trend risulta in linea con le ultime elezioni legislative che nel 2016 avevano registrato la più bassa partecipazione popolare dal 1991. Si sono registrati alcuni brogli ed irregolarità, ma nel complesso le elezioni sono apparse come le più trasparenti degli ultimi anni.

Elezioni, a che pro?

Considerando il dominio del partito di Putin, una domanda sorge spontanea: ma le elezioni servono ancora? La risposta, anche se forse banale, è sì. Le elezioni servono, ma servono soprattutto al Cremlino. Esse rappresentano, infatti, la principale fonte di legittimità interna ed esterna in quello che Steven Levitsky e Lucan A. Way definiscono come un regime ‘autoritario competitivo’, nel loro tentativo di classificare e definire le varie forme ibride di governo diffuse nel mondo a partire dalla disgregazione dell’Unione Sovietica. Per questo tipo di regime, le elezioni rimangono, al pari delle cosiddette democrazie liberali, la principale fonte di legittimità per il potere, ma non risultano “libere e imparziali” e sono svolte in “condizioni di disparità” per i vari partecipanti. Le elezioni regionali ci possono restituire così la fotografia delle attuali condizioni in cui si gioca la competizione elettorale in Russia, in previsione della corsa presidenziale del 2018.

Un vantaggio impareggiabile  

Ad esempio, dopo un periodo in cui i governatori erano direttamente nominati dal Presidente (2004-2012), fu proprio in seguito all’ondata di proteste del 2011/2012 che il Cremlino decise di introdurre nuovamente lo strumento dell’elezione diretta. Un tentativo di ridare legittimità al sistema politico dopo l’arrocco tra Putin e Medvedev. In verità però, la competizione a livello locale è rimasta un miraggio e il processo di centralizzazione del potere (vertikal’ vlasti) è andato avanti, sia grazie a una serie di ‘filtri politici’ che limitano le possibilità delle personalità sgradite al Cremlino, sia ai rapporti informali che regolano le relazioni tra centro e periferia. Il potere centrale è stato in grado di garantire ai governatori un accresciuto potere locale sugli attori sub-regionali (ad esempio i sindaci) in cambio della loro fedeltà e dei risultati nelle elezioni nazionali. Il controllo sulle risorse economico-amministrative locali e l’affiliazione con il partito presidenziale, l’unico in Russia ad avere una solida penetrazione regionale (tanto che alcuni studiosi russi lo definiscono scherzosamente PCUS-light), fanno il resto. Non dovrebbe sorprendere, infatti, che tutti i 16 governatori eletti lo scorso 10 settembre erano in un modo o nell’altro affiliati con Russia Unita e ricoprivano già la carica. Questo non significa solo che il Cremlino ha un saldo controllo praticamente su tutti i soggetti federali del paese, ma soprattutto che ha una base locale consolidata capace di portare voti a Russia Unita e al presidente durante le elezioni di carattere nazionale, siano esse parlamentari o presidenziali.

Mosca, il tallone d’Achille

Unica parziale sorpresa rispetto alle previsioni è rappresentata dal buon risultato ottenuto dall’opposizione non sistemica nelle elezioni per il Parlamento cittadino di Mosca. Anche se poco significativo dal punto di vista amministrativo e pratico, visto che la maggioranza dei seggi sarà comunque controllata da RU, la formazione politica guidata da Dmitrij Gudkov – che ha riunito per l’occasione diversi movimenti con orientamento liberale come Yabloko, PARNAS di Nemtsov e Otkritaja Rossija dell’oligarca ed ex capo della Yukos Michail Chodorkovskij – ha riportato un risultato simbolico in Tverskaja (il distretto del Cremlino) e Gagarinskij (il distretto dove ha votato Putin). Mosca e le grandi città più in generale, rimangono quindi il tallone d’Achille nel sistema dell’autoritarismo competitivo. Una tendenza che rimane in linea con le elezioni parlamentari dello scorso anno. Le grandi città sono, infatti, il centro dell’opposizione non sistemica e culla della nuova e giovane ‘intellighenzia anti-putiniana’. Le elezioni in Russia, però, non si vincono a Mosca o a San Pietroburgo ma nella profonda periferia dove, come dimostrano ulteriormente le regionali, il partito presidenziale è in pratica l’unica forza politica. Il buon risultato di Mosca, inoltre, sarà senza dubbio utilizzato dal Cremlino per rivestire di legittimità l’intero sistema. Se l’opposizione vince nel distretto di Putin, come si può parlare di mancanza di trasparenza?

Il futuro dell’opposizione

Il caso di Mosca deve, però, far riflettere anche l’opposizione non sistemica. L’unione delle forze tra partiti e movimenti di matrice liberale ha permesso di raggiungere un discreto risultato. Nonostante i vincoli e le costrizioni del sistema russo in cui l’opposizione non gode chiaramente degli stessi diritti delle forze politiche sistemiche, quest’esempio dovrebbe essere testato a partire dalle prossime elezioni del sindaco di Mosca e poi anche a livello nazionale. Per fare questo sarà però necessario superare, oltre che le costrizioni del Cremlino, anche personalismi e ambizioni di bottega nel campo liberale.

Aleksej Navalny, che proprio durante la corsa per il posto di sindaco di Mosca nel 2013 aveva costruito la propria credibilità politica, ha praticamente ignorato le elezioni locali non sostenendo nessuno dei candidati dell’opposizione non sistemica. Il suo partito non ha potuto partecipare in quanto senza registrazione legale dopo la discutibile decisione del Ministero della Giustizia del 2015, ma anche i suoi rapporti tesi con i personaggi emergenti del campo anti-Putin sembrano aver influito sul suo silenzio durante tutta la campagna per le elezioni regionali. “O con me o contro di me” sembra, giorno dopo giorno, diventare il principale motto di Navalny, trasformandolo da principale oppositore in alter ego di Putin. Insomma, anche da questo punto di vista Vladimir Vladimirovič può dormire sogni tranquilli.

Foto: M.Zmeyev/Reuters

Chi è Oleksiy Bondarenko

Nato a Kiev nel 1987. Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l'Università di Bologna (sede di Forlì), si interessa di Ucraina, Russia, Asia Centrale e dello spazio post-sovietico più in generale. Attualmente sta svolgendo un dottorato di ricerca in politiche comparate presso la University of Kent (UK) dove svolge anche il ruolo di Assistant lecturer. Il focus della sua ricerca è l’interazione tra federalismo e regionalismo in Russia. Per East Journal si occupa di Ucraina e Russia. Collabora anche con Osservatorio Balcani e Caucaso.

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