L’invenzione dei costumi tradizionali

Un po’ ovunque in Europa ci siamo abituati a vedere, specialmente in occasioni di feste o celebrazioni religiose, persone vestite in abito tradizionale. Quasi ogni regione del vecchio continente ha un suo particolare abito, con propri colori e fogge, speciali calzari e cappelli. In taluni posti le feste – anch’esse tradizionali – sono un evento capace di attrarre persone da ogni dove, curiose di vedere la processione delle fanciulle o degli uomini agghindati con le loro vesti antiche. Vesti che, appunto, si vuole provengano dalla tradizione, ovvero da un passato magari non ben definito nella mente di chi guarda, ma certo abbastanza remoto o, comunque, precedente la modernità. E’ infatti opinione comune che gli abiti tradizionali ci siano giunti da un’epoca lontana, dal medioevo persino, e rappresentino una espressione dell’autenticità di quella comunità, capace di preservare nel tempo quell’antico retaggio. Niente di più falso.

Per comprenderlo è sufficiente rivolgersi ai dipinti i quali non hanno mai rappresentato, almeno fino al XIX secolo, contadini in costumi popolari. Eppure la società rurale è sempre stata oggetto – diretto o indiretto – della pittura in ogni epoca. Mai, però, i pittori hanno vestito quella società di panni in qualche modo somiglianti a quelli che oggi chiamiamo “costumi tradizionali”. Anche nei quadri in cui si rappresentavano festività o celebrazioni, gli abiti definivano l’appartenenza a un determinato strato sociale e mai i contadini sono stati raffigurati con vesti diverse da quelle povere e consunte con cui, da sempre, si sono abbigliati. Per chi ne conserva memoria, è forse sufficiente ricordare “l’abito della festa” della propria bisnonna, quella “veste nera” sobriamente a fiori (già descritta da Jules Michelet nei suoi studi), conservata per anni senza quasi indossarla per timore di sciuparla: per quanto si trattasse di un abito “da festa” non aveva nulla a che vedere con quei costumi variopinti e carnevaleschi detti “tradizionali”.

Ancora fino all’Ottocento le osservazioni di carattere etnologico indicavano nell’abbigliamento l’appartenenza a una determinata condizione sociale, ma non l’appartenenza a un gruppo etnico o nazionale: i vestiti dei contadini erano uguali in tutta Europa. Spesso dei costumi contadini nemmeno si dava conto, essendo ritenuti del tutto volgari.

Le cose cambiano a inizio dell’Ottocento, secolo della modernità, quando matura l’idea di nazione. Un’idea che incarnava la necessità di un nuovo regime, economico e politico, favorevole alla borghesia rampante e alle sue volontà liberali. Un’idea che nasce però dalla riflessione culturale e che aveva bisogno di sostenersi attraverso la storia: le nazioni, secondo Herder, erano antiche – almeno medievali – e dovevano finalmente risorgere avocando spazi di autogoverno in opposizione a dominazioni ritenute estranee.

Perché tali “nazioni” potessero esistere, bisognava dotarle di una storia (l’epopea nazionale), di un mito, di una missione e occorreva differenziarle le une dalle altre. Il “canto delle nazioni” herderiano trova il suo spartito proprio nella civiltà contadina, ritenuta la meno corrotta dal tempo e quindi l’unica vera detentrice del carattere nazionale. Improvvisamente lo strato sociale più emarginato divenne oggetto di studi e ricerche: ovunque in Europa giovani intellettuali attraversarono le campagne in cerca di canti, poemi, tradizioni orali che poi – con buona dose di invenzione – cucirono insieme dando vita a un epos nazionale (si pensi ai Canti di Ossian di MacPherson, ai Volkslieder di Herder, al Canto della schiera di Igor di Musin-Puskin, al Kalevala finlandese e al Kaevipoeg estone, i manoscritti di Hanka, fino ai romanzi come Ivanhoe di Scott o ai racconti dei fratelli Grimm).

In questa Europa travolta dalla rivoluzione estetica del nazionalismo si afferma una nuova sensibilità: la ricerca delle radici, funzionale all’affermazione delle identità nazionali, trova anche nella definizione di “costumi” particolari la propria possibilità di affermazione.

Così le piccole peculiarità locali, raccolte nei primi inventari etnologici, vengono sempre più messe in rilievo, codificate e standardizzate, fino a essere del tutto “re-inventate” e descritte in opere come “La grammatica dell’ornamento” (1856) o in “Raccolte” pubblicate in Francia, Inghilterra e Germania che hanno – guarda caso – come oggetto non gli abiti “tradizionali” di quei paesi, ma quelli di luoghi allora esotici e lontani come l’Italia meridionale, la Spagna e il Portogallo, la Grecia. Queste illustrazioni sono cariche di esotismo: luoghi e persone sono descritti in modo da rispondere all’immaginario della borghesia mitteleuropea, e hanno grande influenza sul successivo sviluppo di repertori nel resto d’Europa: la Receuil de costumes de la Bretagne (Charpentier, 1829), i Costumes des femmes du Tyrol (1827), diffusi attraverso la litografia, accendono infine la fantasia dei pittori che cominciano a dipingere contadine in abito tradizionale su sfondi paesaggistici tipici della nazione che si vuole delineare: fiordi o ubertose campagne, pianure o boschi, vigneti o foreste, baie pescose o montagne innevate. I costumi “tradizionali” diventano così anche costumi “nazionali”.

Una volta codificati, i costumi tradizionali diventano patrimonio della nazione e diffusi grazie all’industria. Il caso più emblematico è quello del kilt scozzese. Il kilt è infatti un’invenzione di tale Thomas Rawlinson, imprenditore inglese del ‘700, proprietario di fornaci in Scozia. Durante una visita nelle Highlands vide che i poveri del luogo vestivano con una lunga coperta in lana grezza con motivi tartan che, cadendo dalle spalle, copriva l’intero corpo ed era fermata in vita da una cintura facendo così sembrare la parte inferiore una gonna. Rawlinson ebbe l’idea di realizzare un gonnellino, staccato dalla coperta, e ne inventò una tradizione a fini puramente commerciali. Il kilt è quindi un abbigliamento moderno che il movimento romantico impose come segno di “antichità” attribuendolo ad atavici clan, e ciascuno col suo colore, che mai lo indossarono.

La tradizione è quindi un’invenzione della modernità. I costumi “tradizionali” nascono e si sviluppano a partire dall’Ottocento, a supporto di quella grande rivoluzione estetica e culturale che furono il romanticismo e il nazionalismo. L’industria moderna ne ha diffuso gli stilemi, il turismo ne ha confermato l’importanza. Oggi è sufficiente recarsi nei villaggi delle Dolomiti per assistere a celebrazioni e feste in cui uomini e donne mettono in mostra la propria “antica” tradizione contadina abbigliandosi con abiti i cui colori, fogge, lunghezze, corredi sono stati codificati appena due secoli fa.

La ricerca della tradizione è un’ossessione della modernità,e l’invenzione del passato è oggi più che mai vivace. Essa ha infatti trovato una nuova funzione quale “difesa” di fronte al senso di straniamento e perdita d’identità generata dalla globalizzazione culturale. Il percepito appiattimento della propria identità spinge singoli e gruppi a individuare in un passato mai esistito le radici della propria diversità culturale, della propria unicità e autenticità.

La narrazione politica, come quella veicolata dai mezzi di comunicazione, amplifica questa finzione: così le telecamere possono inquadrare prodotto tipici, serviti da tipiche donne in tipico abito, e sullo sfondo un drappo regionale o una bandiera locale, simbolo della identità di quella comunità. La messinscena del passato, del mondo rurale, dell’arcadia felice in abiti variopinti, serve alla riscrittura del passato che diventa, così, spartito di un presente incerto che usa la storia per consolarsi e nascondersi in un tempo immaginato – magari rivendicato da parolai e politicanti di sorta. Tuttavia prendere coscienza della finzione della tradizione – o di alcuni suoi aspetti – nulla toglie alla sua bellezza: si può godere di una fiaba pur sapendola inventata. Ed è forse l’invenzione che la rende davvero interessante, capace di dirci qualcosa di profondo su di noi e sul nostro modo di vedere il mondo.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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