CINEMA: Il giorno in cui capii la Polonia di Andrzej Wajda

Credo di aver compreso veramente per la prima volta il cinema di Andrzej Wajda solo qualche anno fa. Ero in visita a Łódź e mi trovavo nella fastosa residenza di Izrael Poznański, l’imperatore dell’industria tessile della città a metà Ottocento, quando la guida che ci accompagnava mi indicò un piccolo televisore sul quale scorrevano le immagini di Ziemia obiecana. Film del 1974, distribuito in Italia con il titolo La terra della grande promessa, è tratto dall’omonimo romanzo del premio Nobel Wladysław Reymont. Narra di tre giovani imprenditori di Łódź, un polacco, un ebreo e un tedesco, nel mezzo della travolgente rivoluzione industriale polacca, in cui si incontrarono e scontrarono illusioni di progresso economico, rivendicazioni operaie e moti nazionali in un periodo in cui la Polonia non esisteva più come nazione ed era suddivisa tra Austria, Prussia e Russia.

Ma non fu solo questo a colpirmi. La vivacità dei protagonisti del film, le immense masse operaie, la violenza che sottostà al potere, le speranze di riscatto non solo mi diedero un’immagine compiuta di quella che doveva essere la Łódź ottocentesca, ma mi indussero a ipotizzare che Wajda con queste immagini voleva comunicare anche altro. Negli sguardi degli operai oppressi si rispecchiava infatti, neanche troppo velatamente, il dolore delle vittime degli scioperi del 1970 a Danzica, sedati nel sangue dal governo e ancora fortemente vivi nella società polacca. Il suo era il chiaro tentativo di aggirare il clima di censura dell’epoca, attingendo al passato per narrare il presente, ma questa felice alternanza tra storico e contemporaneo non si interromperà neanche dopo il 1989.

Con una sintetica definizione si potrebbe dire che Wajda fu essenzialmente questo: un prolifico regista in grado di narrare la complessità della storia polacca senza mai tralasciare la vivida, quanto ricercata connessione con il presente. Non c’è quasi episodio o simbolo della storia del suo paese che non abbia voluto o saputo narrare. Dal Pan Tadeusz, tratto dal poema di Adam Mickiewicz che si potrebbe definire l’omologo polacco dei Promessi sposi, ai Dannati di Varsavia, tragica ricostruzione dei giorni dell’Insurrezione contro i nazisti nel 1944, dal Danton, vivido confronto tra ideologie rivoluzionarie che si producono in esiti reazionari, a Cenere e diamanti, storia di un regolamento di conti politico nell’immediato dopoguerra fra esponenti dell’Armia Krajowa, l’esercito nazionale nelle cui file combatté lo stesso Wajda, e i comunisti.

Nonostante l’interesse per il passato, Wajda fu anche un coraggioso narratore del contemporaneo. Il secondo film della trilogia sul movimento operaio, L’uomo di ferro, è quasi un documentario in presa diretta del nascente Solidarność e non a caso Lech Wałęsa, cui sarà dedicato il terzo film del ciclo, venne chiamato a ricoprire una piccola parte nel film. Aveva aperto la trilogia L’uomo di marmo, inchiesta giornalistica sulle tracce di un operaio stakanovista, instancabile costruttore di Nowa Huta, la città nuova alla periferia di Cracovia, paradiso socialista, che gli si rivolterà tragicamente contro, svelandosi nelle sue molteplici contraddizioni.

Andrzej Wajda era nato nel 1926, figlio di un ufficiale della cavalleria polacca, ucciso insieme ad altri 22.000 soldati dai sovietici nel massacro di Katyń, raccontato nell’omonimo film del 2007, studiò prima a Cracovia e poi alla prestigiosa Scuola nazionale di Cinematografia di Łódź. Candidato quattro volte all’Oscar per il miglior film straniero, riceverà solo nel 2000 l’Oscar alla carriera.

Wajda è morto il 9 ottobre 2016 a novant’anni; quattro giorni dopo avrebbe dovuto partecipare al Festival di Roma per presentare Powidoki (Afterimage), il suo ultimo film dedicato alla figura di Władysław Strzemiński, docente alla Scuola nazionale di Belle Arti di Łódź e pittore ostile alle imposizioni del Realismo socialista. Espulso dalla Scuola e dai circuiti artistici ufficiali, raccoglierà attorno a sé numerosi studenti desiderosi di ascoltare in clandestinità le sue lezioni. La tristezza per la perdita del grande regista è in parte mitigata dall’attesa di poter vedere questa sua ultima, attesa opera.

A oggi, però, se mi fosse chiesto di scegliere fra le centinaia una scena o, meglio, la scena da consegnare ai lettori quale omaggio e ricordo del regista, non avrei dubbi. Uno dei primi fotogrammi del film del 1990 Dottor Korczak, sceneggiato da Agnieszka Holland e dedicato al pediatra ebreo e fondatore della Casa degli orfani che non abbandonò i suoi bambini prima nel ghetto e poi verso Treblinka, vede il protagonista con un bambino piccolo e impaurito mentre salgono lo scalone di un edificio imponente. Sono all’Università e il dottor Korczak sta andando in aula a tenere una lezione. Entra e chiede ai suoi studenti di spostarsi nel laboratorio, mentre il piccino sembra sempre più spaesato e terrorizzato. “Quando siete stanchi, di cattivo umore”, esordisce Korczak e prosegue immaginando un genitore che, per i motivi detti, urli o peggio picchi il proprio bambino: il suo cuoricino inizierà allora a battere all’impazzata.

A questo punto l’inquadratura si sposta verso una macchina per i raggi X dietro la quale il cuore del piccolo amico di Korczak si contrae con rapidità impressionante. Quello è il cuore di un bambino che sarà presto relegato nel ghetto, poi gettato in un carro bestiame e infine nella camera a gas, ma è anche il cuore di tutti i bambini maltrattati del mondo, di ieri, oggi e domani.

Foto: Bswise, flickr (fotogramma da Ashes and Diamonds, 1958)

Chi è Donatella Sasso

Laureata in Filosofia con indirizzo storico presso l’Università di Torino. Dal 2007 svolge attività di ricerca e coordinamento culturale presso l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino. Iscritta dal 2011 all’ordine dei giornalisti. Nel 2014, insieme a Krystyna Jaworska, ha curato la mostra Solidarność nei documenti della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano. Alcune fra le sue ultime pubblicazioni sono: "La guerra in Bosnia in P. Barberis" (a cura di), "Il filo di Arianna" (Mercurio 2009); "Milena, la terribile ragazza di Praga" (Effatà 2014); "A fianco di Solidarność. L’attività di sostegno al sindacato polacco nel Nord Italia" (1981-1989), «Quaderni della Fondazione Romana Marchesa J.S. Umiastowska», vol. XII, 2014.

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