Presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, arrivato nelle sale italiane a giugno, e in tour in numerosi festival cinematografici europei – come la famosa rassegna di Karlovy Vary conclusasi nei giorni scorsi – il nuovo film di Andrzej Wajda, “Wałęsa,Człowiek z nadziei” (Lech Wałęsa, L’uomo della Speranza), porta sullo schermo un pezzo di storia polacca, quella di Solidarność e del suo leader fondatore e ispiratore.
Non sarebbe la prima volta che il cinema polacco si confronta con la propria storia, e Wajda, importante esponente di tutto lo scenario cinematografico europeo orientale, si è sempre contraddistinto in tal senso. Da “Kanał” (I dannati di Varsavia), tra i primi film a raccontare l’insurrezione di Varsavia, passando per “Ziemia obiecana” (La terra promessa), che si guadagnò la nomination all’Oscar, fino al film su Wałęsa, il regista, ormai quasi novantenne, ha testimoniato l’evoluzione storico-politica della Polonia fotografando i momenti che l’hanno resa nota oltre la cortina.
In realtà, L’uomo della Speranza non è un topos nuovo per Wajda poiché completa il trittico sui rapporti tra il regime comunista e il movimento operaio inaugurato da “Człowiek z marmuru” (L’Uomo di Marmo) e continuato da “Człowiek z żelaza” (L’Uomo di Ferro) che già parlava di Wałęsa destinato a diventare da quell’occasione anche amico personale del regista. Forse in questo senso si spiega l’esigenza di Wajda di mostrare come il miracolo sia avvenuto e il comunismo decaduto. Perché se l’intento era quello di spronare alla riflessione storica, allora l’obiettivo non è stato raggiunto. E se lo scopo era ricostruire una parte della resistenza polacca, Wajda fallisce nuovamente. Non solo il film non rivela tratti inediti del leader, ma si limita a ricondurre alla sua figura l’esperienza più ampia e complessa di tutto il movimento di Solidarność difettando di una più profonda contestualizzazione politica. Pertanto, le sequenze che alternano il colore al bianco e nero e i filmati reali con quelli riprodotti non bastano ad allargare l’inquadratura, a dare prospettiva ad un film che si esaurisce nel tratteggio di quadretti familiari e nella pittura semplicistica di un uomo comune ritrovatosi alla guida di un movimento di portata storica. Certamente Wałęsa è anche questo: la storia di un elettricista che con determinazione, caparbietà, rabbia e voglia di libertà si pone alla guida di un sindacato capace di imporsi come attore principale della resistenza anticomunista.
Eppure, se crediamo alle parole di Wajda quando dice che ha girato il film affinché i giovani riscoprano la figura di Wałęsa spesso dimenticata, il racconto cinematografico non soddisfa nemmeno questo fine. La celebrazione della vittoria democratica, a cui ha senz’altro contribuito il sindacalista, avrebbe dovuto accompagnarsi ad un’analisi dilatata al Wałęsa degli anni della Presidenza (1990-1995) – periodo in cui le difficoltà della carica si rivelarono troppe per le sue capacità – o a quello, degli anni più recenti, che ha suscitato notevoli controversie per via delle sue visioni politiche estremiste.
Cosa rimane allora di questa storia monca? Rimane un Wajda lontano dal suo passato d’esponente di spicco della cosiddetta “scuola polacca” di cinema, figlia del prestigioso centro cinematografico di Łódź conosciuto a livello internazionale per lo spessore dei registi che l’hanno frequentato e tra cui figurano i grandi nomi di Polanski, Kieślowski, Holland e Zanussi. Il Wajda che oggi cerca di recuperare la memoria storica ci regala, in realtà, soltanto una biografia agiografica che si potrebbe inserire nella più ampia e tradizionale historia patriae: la visione di una Polonia baluardo della cristianità e Cristo fra le nazioni. Così, l’accento sulla Polonia che si è ribellata e ha sconfitto per prima il comunismo ricalca la visione messianica e romantica dei polacchi che combattevano nei movimenti di liberazione nazionale dell’Ottocento bandendo lo slogan “za naszą i waszą wolność ” ( per la nostra e vostra libertà).
Il Wajda che avremmo voluto vedere sarebbe stato meno intento a solidificare un mito e più accorto nel fotografare un’immagine meno sfocata e più contestualizzata e prospettica di un leader a suo tempo importante ma che ora non trova più spazio nell’orizzonte politico polacco. I giovani a cui si rivolge il regista hanno bisogno di una visione più ampia e meno unidirezionale per fare della storia «un possesso per sempre».