UNGHERIA: Referendum anti-immigrati, perché Orban non ha perso

L’Ungheria è andata alle urne per esprimersi in merito al sistema di quote per la ripartizione dei rifugiati tra i paesi membri. Un sistema votato a maggioranza dal Consiglio europeo ma con l’opposizione del governo ungherese che ha quindi deciso di sottoporre la questione ai cittadini i quali – per il 57% – ha disertato le urne sancendo il fallimento dell’iniziativa referendaria. Ma è stata davvero un fallimento?

L’obiettivo di Orban

Malgrado il mancato raggiungimento del quorum, Orbàn ha potuto confermare la propria posizione di “uomo forte” dentro e fuori il paese, spaccando l’opposizione e ottenendo ben tre milioni di consensi da leggersi in funzione delle prossime elezioni politiche. Grazie a questo referendum l’Ungheria è divenuta capofila di quei paesi che si oppongono alle quote di migranti decise dal Consiglio europeo, mentre la figura di Viktor Orban e la sua “democrazia illiberale” hanno trovato epigoni nei paesi limitrofi, quali Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca, diventando simbolo della “resistenza” alle politiche UE. 

Viktor Orban, non si attendeva una vittoria, e non era quello il suo obiettivo. L’obiettivo vero è quello di aprire un fronte interno all’Unione, tale da mettere in crisi i meccanismi decisionali e i regolamenti sanciti dai trattati europei. Il fine ultimo sarebbe – secondo quanto detto dallo stesso Orban – una “Europa delle nazioni”, priva di una cornice politica comune ma unita da accordi commerciali.

La falsa questione dei rifugiati

Per portare avanti questo obiettivo, Orban ha strumentalizzato la questione del sistema delle quote di rifugiati deciso dall’UE. Un sistema che prevede la redistribuzione di 160 mila rifugiati nei 29 paesi membri e secondo cui l’Ungheria avrebbe dovuto accogliere appena 1290 persone. Un numero che non giustifica un referendum costato 48,6 milioni di euro – più di quanto speso per la Brexit. E’ evidente che in ballo c’è di più. In ballo c’è la costruzione di un nuovo modello di stato, un modello che lo stesso Orban ha chiamato “democrazia illiberale”. 

La “democrazia illiberale”

“Dobbiamo abbandonare i metodi e i principi liberali nell’organizzazione della società. Noi stiamo costruendo uno stato volutamente illiberale”. Era il 17 febbraio 2015  quando Viktor Orban pronunciava queste parole. Dalla sua elezione, nel 2010, Orban ha potuto godere della maggioranza dei due terzi dei seggi in parlamento e ciò gli ha permesso di modificare, in senso nazionalista e confessionale, la Costituzione, riducendo l’autonomia della Corte costituzionale e ridisegnando i confini dei distretti elettorali così da garantire al suo partito facili successi. Con una controversa legge sulla stampa ha poi trasformato la televisione di stato in megafono del governo, spingendo alla chiusura i media indipendenti.

La costruzione di un “muro” anti-immigrati e il referendum sul sistema di quote voluto dall’UE sono gli ultimi passaggi, in ordine di tempo, del progetto orbaniano. In questo senso il referendum non va letto come un’occasione democratica di espressione della propria volontà da parte dei cittadini, ma come uno strumento plebiscitario utile a riaffermare il potere del “capo”.

Il tema dell’identità 

Un altro strumento di consenso nelle mani di Orban è quello dell‘identità culturale. Per convincere gli ungheresi della pericolosità di 1290 rifugiati, il governo ha dovuto usare un armamentario ideologico secondo cui il problema vero non starebbe nel numero degli stranieri, ma nella loro diversità culturale. L’Ungheria rischierebbe di vedersi annichilita dalla presenza massiccia di migranti musulmani, estranei alla cultura, alla lingua e alla religione locale. Rifiutare l’accoglienza a 1290 di loro sarebbe quindi un atto simbolico di “resistenza”.

Ma quanti sono i rifugiati in Ungheria? Dati alla mano, il paese è attualmente in testa alle classifiche per richieste d’asilo, ben 174.435 nel 2015, un dato pari ad appena l’1,7% della popolazione a cui occorre sommare lo o,15% di rifugiati già presenti nel paese (dati UNHCR). Non abbastanza per parlare di minaccia all’identità culturale.

La vittoria di Orban

Il risultato del referendum non deve tranquillizzare. Orban ne è uscito vincitore semplicemente per averlo indetto, sfidando così l’UE e portando avanti un progetto politico illiberale che vede sempre più seguaci, anche in Europa occidentale. L’orbanismo trova, in questo referendum, un’ulteriore affermazione interna ed estera, attraverso l’uso di retoriche della paura, xenofobe e nazionaliste, di cui l’anti-europeismo diventa il collante ideale. Tuttavia, se è senz’altro vero che l’UE necessiti un profondo ripensamento, non è attraverso la perdita di libertà democratiche che i cittadini europei – o ungheresi – otterranno qualcosa.

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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