Contro il localismo e la retorica del territorio

Il rapporto di appartenenza con un dato luogo,con cui si sviluppa un legame sentimentale, rischia di portare con sé politiche spaziali esclusiviste e reazionarie tendenti a emarginare chi a quel luogo non appartiene in origine.Il localismo è espressione di questa reazione ma non ha senso di esistere poiché i luoghi non sono spazi ma processi

Il nostro vivere in uno spazio non è cosa pacifica e priva di scandali. Noi crediamo di essere milanesi, torinesi, romani, lombardi, siciliani o – persino – padani, in base a cosa? La nostra percezione di identità legata all’appartenenza a un dato luogo è affatto limitante e si presta, per questa sua limitazione, a essere oggetto di strumentalizzazioni politiche.

Anzitutto cerchiamo di capire che cosa è un luogo e come le scienze umane, non da ultima la geografia, lo hanno definito nel corso del tempo. La concezione più diffusa in passato, e assai resistente anche oggi, è quella del determinismo geografico, ovvero che le caratteristiche fisiche di un territorio (le montagne, i fiumi, la pianura) possano influenzare il carattere delle comunità che lo abitano e, su scala maggiore, degli stati che si formano in quegli spazi. Le caratteristiche morfologiche del luogo avrebbero cioè la capacità di predeterminare le possibilità successive di sviluppo, espansione e successo di uno stato.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta si diffondono i “cultural studies”, epicentro fu l’università di Barkeley. Questi studi mettevano al centro della loro analisi il comportamento umano. Ne deriva che è l’uomo a determinare il luogo, e non il contrario. Tramite la sua azione sul territorio, l’uomo modifica a propria immagine lo spazio che abita (Sauer). E’ dunque l’agire su di esso che fa il luogo. La città, la regione, l’area in cui viviamo è il frutto delle nostre azioni e non il contrario. L’evidente bontà di tale ragionamento non è priva di trappole: se l’uomo agisce sul territorio e lo fa proprio, ne consegue un rapporto di appartenenza. E’ la geografia degli affetti (Tuan) che poggia su un grande imperativo: i luoghi non mutano, altrimenti si romperebbe il legame affettivo e di appartenenza.

Tuttavia noi sappiamo che i luoghi mutano nel tempo. Sappiamo che agenti esterni alla comunità degli affetti entrano nel luogo e lo trasformano. La comunità degli affetti reagisce attraverso l’uso selettivo della memoria che tende a escludere quanto la comunità prevalente non gradisce. La selezione della memoria non riguarda la storia del luogo ma una sua interpretazione nel presente e per il presente, spesso a vantaggio della classe dominante che trova nell’uso selettivo della memoria una fonte di legittimazione. Tutta la retorica sul localismo e sul territorio, tutta la riscoperta delle radici popolari, della musica tradizionale, della lingua locale, non è una riscoperta della storia ma una re-invenzione del passato.

La tendenza a rappresentare un luogo come immutabile, radicalmente simile a se stesso nel tempo, legato alla geografia dei sentimenti o concepito come rifugio, porta con sé politiche spaziali esclusiviste tendenti a emarginare chi a quel luogo non appartiene in origine. Ecco che il localismo, che si nutre di sentimento e di parole come “autenticità” o “radici”, si pone in tal senso come una retorica reazionaria ed esclusivista. Il concetto delle “piccole patrie” omogenee, tradizionali, “storiche”, è un errore logico: se i luoghi sono il frutto dell’agire umano su di essi, allora non c’è luogo che sia immutabile o immutato, “autentico” o esclusivo di una comunità.

La specificità del luogo finisce per essere usata come strumento politico e nasce come forma di resistenza nei confronti della globalizzazione, ovvero della mobilità del capitale che – per sua natura – è dinamico e in continua tensione con la fissità dei luoghi al punto che spesso sono questi ultimi a soccombere, creando un senso si spaesamento nelle comunità. La paura dell’omologazione culturale che si accompagna ai processi di globalizzazione economica è tuttavia infondata: la globalizzazione economica consente ad alcune multinazionali o istituti finanziari  del primo mondo di compiere investimenti senza incorrere in troppi controlli in molte aree del globo, tuttavia queste stesse multinazionali non possiedono una capacità di influenza sul lungo periodo in grado di cancellare identità e tradizioni secolari. Questa paura è però quella su cui il localismo si innesta, sia esso espressione di una forza politica o di un sentire individuale.

Ma allora come definire in positivo il “luogo”? Nel saggio “A modern sense of place”, la geografa Doreen Massey trova forse la più efficace chiave interpretativa, oggi condivisa da tutta la comunità accademica. I luoghi sono processi, non sono spazi. Processi in continuo divenire, punti di intersezione di infinite relazioni sociali. Le interazioni sono, per loro natura, mobili, quindi un luogo non è fisso né immutabile. Un luogo è il risultato di molteplici negoziazioni da parte di chi agisce in esso. E le negoziazioni – ovvero l’agire nel luogo in relazione agli altri agenti – sono mutevoli e possono produrre qualcosa di nuovo in qualsiasi momento. In tal senso l’identità di un luogo non è data dalla sua immutabilità o ideale adesione a caratteri originari, ma dal modo, dalla velocità e dalla quantità dei processi e delle negoziazioni. Questi elementi danno al luogo una sua “unicità” che, quindi, non sta nella lingua locale, nella tradizione o nel passato, ma nel presente dell’agire umano.

Un luogo siffatto non è cosa che si possa cintare con barriere linguistiche, appartenenze emotive, memorie selettive. Non sta sulle carte geografiche, non ha confini politici definiti. Ecco perché, a conti fatti, l’idea localista è frutto di una errata visione della realtà e del mondo.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

Leggi anche

Mariupol'

Non le sentite tremare le finestre dopo l’assedio di Mariupol’?

L'assedio di Mariupol', quindici ore di bombardamenti. Non sentite tremare le vostre finestre? E invece ci balocchiamo con le dietrologie...

2 commenti

  1. Ci sono alcuni punti deboli nel ragionamento generale.
    Il primo è connesso alla riduzione, implicita discorso, del processo di globalizzazione all’ambito temporale contemporaneo. Solo in assenza di una reale prospettiva di analisi storica dall’età moderna ad oggi è possibile affermare con leggerezza che le “multinazionali non possiedono una capacità di influenza sul lungo periodo in grado di cancellare identità e tradizioni secolari”. L’unico “lungo periodo” su cui è possibile gettare uno sguardo – escludendo le capacità divinatorie – è il passato: gli ultimi cinque secoli mostrano piuttosto convincentemente come la totale cancellazione di costrutti identitari abbia avuto luogo in innumerevoli circostanze.
    Il secondo (e ben più grave nell’economia generale del discorso) limite del ragionamento sta nell’esclusione dell’obiettivo polemico dell’articolo dall’ambito della processualità e della negoziazione poste alla base della costruzione dei luoghi. È il caso che mi spieghi meglio: l’uovo di Colombo è nell’asserzione secondo cui i luoghi non esistono in sé, ma “si fanno” nelle relazioni processuali messe in atto dagli attori coinvolti nelle dinamiche di territorializzazione. Ineccepibile, vale, secondo un approccio interazionista, per qualsiasi costruzione identitaria (Arjun Appadurai ci direbbe che quella “locale” è la regina tra le rappresentazioni di questo tipo).
    Ma perché mai “barriere linguistiche, appartenenze emotive, memorie selettive” non dovrebbero essere parti costituenti del processo di costruzione del luogo stesso? Come già spiegavano Hobsbawm e Ranger la tradizione, per quanto inventata, influisce nei processi stessi di soggettivazione. Più recentemente lo studioso ebreo Shlomo Sand ne “L’invenzione del popolo ebraico” ci spiega come la legittimazione culturale all’esistenza di Israele si basi su una tradizione artificiale (quella di una condivisa cultura e tradizione ebraica), eppure questa “visione errata della realtà e del mondo” (un pelino dogmatiche queste espressioni, no?) è stata parte centrale nel processo di costruzione dell’identità israeliana attuale.
    Insomma se si vuole analizzare la realtà secondo termini processuali, si tenga conto che il processo riguarda tutta la realtà (visioni errate o corrette che siano.. io parlerei di strutture e incrostrazioni sovrastrutturali, ma è un altro discorso).

  2. Il tuo discorso mi sembra inerente alla smaterializzazione della cultura (informazione, comunicazione, istruzione) come fattore di orientamento per e relazionamento tra le persone, al suo distaccamento dal territorio. Tuttavia, capire e conoscere il mondo su scala globale senza avere un punto fermo (un “limite potenziante”) per cambiarlo come può essere un proprio luogo non è una liberazione, ma la vera repressione.
    Il ritorno al localismo e la riscoperta delle tradizioni in una prospettiva inclusiva e non esclusiva come dici tu, è la vera via verso una vita democratica, proprio perché include tutte le persone che vivono e pensano nel proprio territorio e non solo quelli che hanno gli strumenti culturali e materiali per essere attivi.
    F.

WP2Social Auto Publish Powered By : XYZScripts.com