Aida e la biblioteca. Reminiscenza di Sarajevo

Aida Buturović non aveva ancora trentatré anni, eppure non le mancava l’età giusta per morire, l’età dei grandi sacrifici, delle morti solenni. Aida, “celeste Aida” era solo una giovane donna che non cercava santità o martirio. Faceva la bibliotecaria alla Vijećnica, così gli abitanti di Sarajevo chiamavano la loro biblioteca. La biblioteca nazionale di Sarajevo, costruita nel 1894 in stile moresco, rappresentava l’anima errante della Bosnia Erzegovina, a metà tra Solimano e Maimonide, tra le sue mura batteva il cuore semitico degli slavi del sud. Un’anima di cui i macellai serbi nulla sapevano, ma di cui intuivano il carisma, quello che oggi si direbbe “la grazia”. Così la violarono, con le mani grosse e il cuore marcio di anfetamine, senza nemmeno sapere a cosa stessero mirando. Aida però lo sapeva. Morì colpita da una scheggia di granata, dilaniate le carni, mentre cercava di salvare i libri più preziosi. Era il 25 agosto 1992.

La biblioteca nazionale di Sarajevo custodiva, prima della guerra, un milione e mezzo di libri, tra i quali centocinquantamila esemplari rari e preziosi, e circa cinquecento incunaboli. Bruciò per tre giorni consecutivi. Non ne rimase che lo scheletro. Lo scrittore bosniaco Goran Simić, guardando dalla finestra la biblioteca in fiamme, scriveva: ”Liberati dalla canna fumaria, i personaggi girovagavano per la città, mescolandosi con i passanti e le anime dei soldati morti. Ho visto Werther seduto sul recinto di un cimitero distrutto; ho visto Quasimodo, dondolante sul minareto di una moschea; Raskolnikov e Mersault sussurravano, per giorni, nella mia cantina; Yossarian già commerciava con il nemico; il giovane Tom Sawyer era pronto a vendere, per pochi soldi, il ponte Principov”.

Aida morì così, in quel 1992, prima dell’assedio, prima dei cecchini, prima che il suo paese – la Jugoslavia – venisse smembrato dalle fiere, prima che una pace mettesse punti di sutura e inventasse un’indipendenza imbalsamata in bende ancora insanguinate. I macellai, alla fine, hanno ottenuto un brano di quella terra rimorsa. Una targa sulla biblioteca ricorda l’attacco serbo, quasi un epitaffio per l’aggressore più che per l’aggredito. Ma non c’è una targa per Aida. Perché Aida è la città, e la città è una ferita. E ogni ferita, quando rimargina, lascia il segno. Sarajevo resta lo sbrego su quella bella tela dipinta che è l’Europa, forse, unita. E’ l’epicentro storico e morale della nostra generazione, come Berlino lo fu di quella precedente. E come Berlino, anche Sarajevo sta diventando una suggestione, un vagheggiare orientalistico, rêverie des expats, conflitto di moda, passeggiata oltre i check-point, Charlie e il viale dei cecchini, una teca di vetro in cui simulare una vita ricopiata dal passato. Resta Aida a ricordarci della città viva, senza il lusso del martirio, senza cenotafi e marmi, reminiscenza archeologica, passione vitale, libro da leggere.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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