Contro la primazia della lingua inglese, tomba d’Europa

La primazia della lingua inglese è sotto agli occhi di tutti, tuttavia non è a tutti evidente la gravità di tale primato. Partiamo dalle premesse. L’inglese è una lingua parlata da circa 350 milioni di persone e si stima che altri trecento siano i milioni di persone che la usano come seconda lingua. La sua diffusione si deve – come tutti sanno – all‘imperialismo britannico, che l’ha esportata in mezzo mondo facendone lingua dell’amministrazione e della cultura dall’India, all’Australia, all’Africa fino all’America settentrionale. Proprio da qui, per via dell’espansionismo americano, la lingua inglese ha tratto nuovo impulso. La ragione della diffusione dell’inglese è quindi di ordine politico-militare. E’ la lingua dei conquistatori. 

Nel Novecento il Regno Unito smette progressivamente ma inesorabilmente il suo ruolo di potenza e sono gli Stati Uniti a svolgere il compito della diffusione manu militari della lingua inglese. A Londra resta l’onore di essere la patria della lingua imperiale, ed è lungo le sponde del Tamigi che si va ad impararla. Per l’Europa è la fine della Seconda guerra mondiale a segnare l’inizio della primazia dell’inglese sulle altre lingue. Diceva Winston Churchill: “The Power to control the language offers far better prizes than taking away people’s provinces or lands or grinding them down in exploitation. The empires of the future are the empires of the mind”. – Il potere di controllo sulla lingua offre ai conquistatori vantaggi ben maggiori che aggiudicarsi nuovi territori o nuovi paesi. Gli imperi del futuro saranno gli imperi della mente. Churchill ci mette in guardia: i paesi non anglofoni finiranno con l’assorbire in maniera graduale e naturale i valori anglo-americani grazie allo studio della lingua inglese.

Come tutti sanno le due guerre mondiali segnano la fine dell’Europa come centro propulsore della vita politica internazionale. Divisa tra due nuove superpotenze nucleari, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, il vecchio continente è ridotto al ruolo di ancella. Nella pars occidentalis l’inglese si afferma come lingua franca. Un bisticcio di parole che segna il passaggio di un’epoca. Non è infatti più il francese a essere la lingua “franca”, veicolo di cultura da Lisbona a Mosca, parlata per secoli dalle classi colte di Berlino e Pietroburgo, espressione dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, dell’illuminismo e della filosofia, ma l’inglese dei supermarket e di Hollywood.

L’inglese non è però la lingua della cultura umanistica, bensì della tecnica. La diffusione dell’anglo-americano corrisponde con la standardizzazione della nostra vita quotidiana, alla digitalizzazione del sentimento e alla rimozione della memoria. L’Europa anglofona è un’Europa che va incontro all’alzheimer. L’Europa è infatti, piaccia o no, un grande luogo della memoria. Le strade d’Europa sono intitolate a statisti, letterati, filosofi, musicisti, oppure ricordano le grandi battaglie che hanno forgiato nel sangue il continente fino al grande suicidio delle due guerre mondiali. Camminare per una città europea significa immergersi in una cassa di risonanza del passato. E ovunque proliferano targhe, monumenti (dal latino monere, ricordare, e mentum, atto; ovvero “ricordare un fatto”), musei e case abitate da poeti, filosofi, compositori. La casa di Shelley e Keats a Roma, quella di Marx a Treviri, quella di Goethe a Weimar. E le città stesse, Weimar, Roma, Parigi, sono cronache viventi.

L’Europa è un grande luogo della memoria, anche della memoria oscura dei massacri, dei treni che portavano a Buchenwald, del rogo degli eretici: un lungo epitaffio di marmo e granito che ricorda la nostra follia, l’anima nera del vecchio continente. Un continente che produce più storia di quante ne possa contenere. E anche per questo l’ha esportata, con il colonialismo, pur con alterne fortune. Negli Stati Uniti vige il rifiuto della memoria. Le strade americane sono elenchi di numeri, di viali che portano al tramonto, di edifici non più vecchi di cinquant’anni, figli di quella mentalità che bene fu riassunta da Henry Ford: “la storia è una sciocchezza“.

L’Europa americana, che trova nell’inglese la sua lingua internazionale, va dritta verso l’oblio di se stessa. Attenzione, la questione non è quella di avere una lingua di comunicazione ausiliaria, necessaria agli scambi e alla comunicazione in un continente (e in un mondo) sempre più integrato, ma che tale lingua sia il risultato di una conquista e che si ponga come forza omologante. A ogni lingua corrisponde una tipologia di forma mentis, un modo peculiare di vedere il mondo. La primazia dell’inglese sta diventando la primazia della mentalità anglo-americana. E lo si vede bene nella politica, nel linguaggio che riduce il lavoro a una prestazione salariata, in nome di una flessibilità che proprio da oltreoceano arriva. O nell’individualismo istituzionalizzato che sta legittimando la fine dello stato sociale. O nell’idea di cultura che è sempre più marketing e meno pensiero.

In Europa è in atto una riduzione del pensiero a burocrazia manageriale, alla cultura umanistica si sostituisce quella scientifica, con disprezzo della prima in nome della meccanica esattezza della seconda. In Europa il pensiero scientifico è stato sempre legato a quello umanistico: al silicio corrisponde un incunabolo. Ma oggi nei computer sempre più piatti possiamo misurare lo spessore della nostra cultura protesa alla bidimensionalità. E dove manca la profondità, manca la speculazione, il pensiero, la ragione. Per l’Europa la minaccia più radicale è questo esperanto di cultura pop (popolare e populista), di mercato di massa, di night-club e fast-food da Lisbona a Kiev.

Lo sviluppo di Internet potrebbe portare alla caduta di molte barriere, allo sviluppo cioè di una coscienza e identità collettiva sempre più omogenee. Ne potrebbe conseguire la fine della nociva diversità, foriera di pulizie etniche, genocidi, atrocità che il Novecento ben conosce. Ma la diversità è anche quella che William Blake definiva la “santità dei minimi particolari”. Ed è quella la santità d’Europa. Non sarà lo sviluppo di burocrazie a salvare il vecchio continente. L’Europa morirà il giorno in cui dimenticherà che “Dio si trova nei dettagli. La frammentarietà dell’Europa è l’origine della sua fertilità.

E’ evidente che l’Europa attraversa un momento di crisi. Una crisi di identità e di valori di cui la crisi economica è solo un segno esteriore e misurabile, come la febbre per il corpo umano. La malattia non è nei numeri, ma nell’anima, e non sarà con le ricette della standardizzazione burocratica che si guarirà.

Non saranno la lingua unica, il mercato unico, la moneta unica né lo sviluppo di burocrazie o tecnocrazie sul modello lussemburghese a salvarci. In gioco c’è l'”idea di Europa“, quella che parte da Atene più di duemila anni fa. Un’idea che non va dimenticata ma nemmeno imprigionata in un museo, tempio di cose morte. Le nostre città museo, imbalsamate nella soffocante bellezza e schiacciate dal peso del ricordo, devono trovare in quella bellezza e in quel ricordo lo specchio del loro presente. L’Europa è ancora. L’Europa è da sempre “unica” e unita. Lo è nei caffé, come diceva Steiner, in cui Kierkegaard, Wilde, Robespierre, Montale, Marx, si fermavano a discutere. Lo è nell’architettura e nell’arte, da Odessa a Lisbona. Lo è nella storia intrecciata e indissolubile. Lo è nei fantasmi e nei mostri che nascono dal suo lato oscuro.

Tutto questo va esaltato e recuperato perché, nel bene o nel male, qui sta la forza motrice d’Europa. La narcosi di giochi senza frontiere non eviterà nuovi mostri, e già si vede quanto i nazionalismi e i neofascismi trovino sempre più spazio in quest’Europa senza identità. Quello che serve è che di nuovo il toro fecondi la ninfa. Ma per i corridoi del parlamento europeo, nelle sedi dell’Ocse o della Banca centrale, si parla inglese. La lingua dell’omologazione della standardizzazione. Una lingua che ucciderà l’Europa.

La necessità di una lingua ausiliaria non è in discussione: serve alla società globalizzata, serve per non essere tagliati fuori dal mercato del lavoro e dalla competizione capitalistica. L’inglese è la lingua ausiliaria della nostra epoca ma, al contempo, è una lingua di conquista che veicola omologazione. La si paragona al latino, quale follia. Il latino è diventata una sorta di lingua ausiliaria d’Europa quando la potenza romana non c’era già più. E non era la lingua delle masse omologate ma delle menti più luminose d’Europa. Non era una lingua facile, di “comunicazione”, ma era ardua quanto ricca di possibilità espressive, lingua di “parola”.

Certo, mi si obietterà che serve unire la babele europea, insegnando l’inglese come seconda lingua a tutti i cittadini del vecchio continente. E questo è il peggio, se con l’inglese si insegna – come oggi – la supremazia della tecnica, il valore dell’individualismo, l’attitudine al consumo, l’appiattimento identitario. Già avviene di assistere a riunioni in cui si parla inglese quando tutti i presenti sono italiani (o tedeschi, francesi…) e già si attribuisce all’inglese un valore taumaturgico: attraverso le tre “i” (impresa, internet, inglese) qualcuno aveva tracciato il percorso di guarigione del nostro paese malato. Ma a mettere i necessari puntini su quelle “i” si capisce bene che non c’è futuro in quel percorso, solo un gretto conformismo che confonde il mezzo con il fine. E intanto l’Europa soccombe tra le lusinghe di chi dice d’amarla.

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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20 commenti

  1. Ottimo editoriale Matteo, meriterebbe una rubrica e un percorso simili a “Slavia”

    • Nicola Minnaja

      L’editoriale avrebbe un senso, se la rivista in cui di trova non si chiamasse “East Journal”, e se i lettori non fossero invitati a lasciare “comments” firmando con il proprio “name”. Inoltre è un controsenso assimilare, in senso negativo, l’inglese all’esperanto, che non è una lingua di conquistatori, e chesi contrappone nei fatti a qualsiasi predominio linguistico e a qualsiasi omologazione culturale: nei suoi convegni, nella sua letteratura, nella sua stampa, nelle sue pagine internet.

      • Caro Nicola

        l’articolo può avere senso o non averne, ma si rivolge senz’altro a chi non ragiona per compartimenti stagni e si aspetta di trovare il pane grattugiato sullo stesso scaffale dei crackers ma sa andarlo a cercare, magari, vicino alla farina. Poi, per inciso, da nessuna parte dell’articolo si paragona l’esperanto all’inglese. Inoltre, il suo appunto sul fatto che i campi del nostro sito siano scritti in inglese, conferma parzialmente quanto scritto nell’articolo. Non penserà che l’abbiamo scritto noi? I template dei siti sono pacchetti chiusi. Ma poi, a ben vedere, si tratta di un’osservazione fuori luogo: l’articolo non vuole essere un esempio di nazionalismo linguistico, non si dice che dovremmo scrivere in italiano le parole inglesi (è tema affine, ma non è l’argomento dell’articolo). Questi siti sono venduti in tutto il mondo, l’inglese è usata come lingua ausiliaria. E le lingue ausiliarie servono. Si sottolinea invece, nel pezzo, come l’inglese non sia solo una lingua ausiliaria. Cordialmente

        Matteo

  2. come non codividere quanto scritto…
    l’ottusità razionale anglosassone sta mandando il mondo a rotoli e l’inglese è l’esempio più lampante dell’omologazione verso il basso dell’homo socialis

  3. Uno dei peggiori ed ideologici articoli mai letti nella vostra rivista… Se ne poteva fare anche a meno, grazie!
    C’è sempre stato il bisogno di una lingua franca per i commerci, per la politica e per la scienza, fosse l’italiano, il francese o il latino a seconda dei contesti e delle epoche… Senza contare che negli stessi anni in cui si è affermato l’inglese in molti paesi europei, dopo la seconda guerra mondiale, a Est oltre la cortina di ferro, il russo stava diventando lingua egemone obbligatoriamente insegnata nelle scuole.

    • Caro Emiliano

      se facesse la cortesia di leggere l’articolo con maggiore attenzione, vedrebbe bene che non si discute la necessità di una lingua franca. E poi, di grazia, quale ideologia lo motiverebbe, visto che d’ideologia mi si accusa? Cordialità

      Matteo

  4. articolo molto interessante e ben scritto, che illumina la situazione attuale… basta vedere come hanno chiamato in italia la riforma sul lavoro…. job’s act? ma che roba èa? perché è stato chiamato così…

    • caro Fidi

      lei solleva una questione interessante: quella del chiamare la riforma del lavoro con un termine inglese è un’operazione che si presta a due riflessioni. La prima: l’inglese è “cool”, va di moda, è “figo” dire le cose in inglese perché sembrano più importanti. Sembrano a chi? Alle persone cui il primo ministro si rivolge, potenzialmente quasi tutti i lavoratori italiani. L’idea del primo ministro è quindi quella di ingraziarsi le simpatie degli italiani mostrandosi “cool”. Il che, personalmente, mi pare cosa di una tristezza infinita.

      La seconda: l’inglese è opaco. Per molti italiani l’inglese non è chiaro, non vuol dire qualcosa di chiaro, li confonde. L’inglese diventa così il nuovo burocratese, la lingua del potere per esprimersi. L’essere opaca, di ardua comprensione, serve affinché chi si trova a leggerla o sentirla (il cittadino) si senta in posizione di inferiorità, di ignoranza, di subalternità. Se la scelta dell’inglese obbedisce a questa logica, la tristezza infinita si sostituisce con il disprezzo più profondo.

      Ho detto la mia, ma magari è una scempiaggine. Saluti

      matteo

  5. Emilio Bonaiti

    Modesta domanda: la lingua latina si diffuse in Europa, e nei paesi asiatici e africani a noi vicini a seguito delle legioni romane?

  6. claudio vito buttazzo

    Concordo pienamente

  7. Non fa una piega…tempi malinconici…

  8. beato chi non si accorge di niente…

  9. Spero di non dire una stupidaggine, ma il problema non il mezzo (l’inglese e la cultura che porta con sé) ma il fine che si vuole ottenere nell’introdurlo nella nostro quotidiano. Intanto, ci sarebbe da disquisire su ciò che noi intendiamo per lingua inglese. In quanto in Italia, abbiamo inventato un nostro inglese, dando significati e pronunce a volte davvero lontane dal loro significato.. ed è infatti qui l’utilizzo, il fine. Cioè confondere le persone. Fare apparire più appetibile un discorso utilizzando il vocabolo anglofono.(Bond suona meglio di cambiale a tasso di credito/debito) Comunque ciò che apprezzo davvero dell’articolo, è il trasporto con il quale il giornalista parla dell’Europa, della nostra cultura e storia comune. Quella, se ci pensiamo bene, è la vera Europa, è quello che amiamo dell’Europa o che vorremmo. Ho la fortuna di viaggiare molto per lavoro e da Lisbona a Kiev o da Glasgow a La Valletta mi sembra di vedere le comunanze tra noi Europei sono infinitamente maggiori delle differenze.

  10. articolo confuso, non capisco cosa lega la mancanza di una “idea d’Europa” e la sua crisi con la diffusione dell’inglese, poi si parla del sopravanzare del pensiero scientifico a scapito di quello umanistico quando in Italia la “Buona Scuola” progetta di ri-introdurre l’ora d’arte o di musica ignorando completamente la matematica (materia nella cuale i test PISA dimostrano che siamo tra i più ignoranti) oltre al consueto e annuale elogio degli intellettuali per il liceo classico, che “aprirebbe la mente” . Inoltre non credo che l’inglese sia la lingua dei conquistatori a causa della Nato ma più che altro vedo l’influenza del cinema, della finanza e dell’informatica , campi nei quali gli anglosassoni sono meritatamente, piaccia o no, dominanti.
    Comunque concordo con la risposta al commento sopra per cui in Italia l’inglese è figo sopratutto perchè buona parte degli italiani non lo parla.
    Per finire a me piacerebbe che la vera lingua franca non fosse l’inglese ma l’esperanto , lingua infinitamente più facile da apprendere ma tant’è , il dominio dell’inglese esiste, non se ne andrà via facilmente e non per questo scomparirà la ricchezza culturale dell’Europa.

  11. @MatteoZ
    “cinema, della finanza e dell’informatica , campi nei quali gli anglosassoni sono meritatamente, piaccia o no, dominanti.”

    mi permetto di contraddirti: senza nulla togliere al gande, grandissimo cinema americano, ti ricordo che negli anni 30 a Roma si inaugurava cinecittà, che ha dato inizio al grande cinema italiano, secondo me, nel suo periodo di maggior splendore, superiore a tutti, compreso l’anglosassone. C’è poi anche il grande cinema francese. e qui mi fermo perchè si potrebbe andare avanti a iosa, basta non fermarsi sempre alle solite pellicole di effetti speciali e americanate varie: c’è stato, c’è e ci sarà anche dell’altro, eccome. Sulla finanza sono piuttosto ignorante, ma voglio ricordare che la partita doppia l’ha inventata un monaco fiorentino a nome Luca Pacioli. E l’informatica? beh, uno dei più grandi geni che hanno dato impulso a quella scienza con i loro studi è stato Kurt Goedel. Era austricao di Brno, anzi Brunn, come si chiamava ai tempi dell’impero Austro-Ungarico.
    Per cui ci andrei cauto a dire che gli anglosassoni dominano i vari campi delle arti e delle scienze umane. Hanno dato, come tutti, il loro grande contributo. Sulla “manu militari”, invece, è sotto gli occhi di tutti che hanno dominato (e dominano ancora) l’occidente, con tutte le consegueze del caso, lingua compresa come secondo me settolinea giustaente l’articolo.
    Saluti

    • verissimo, e vale anche la pena ricordare la programma 101, della Olivetti, il primo personal computer al mondo…

  12. L’articolo mi è piaciuto molto e ne condivido in gran parte i contenuti.
    Dico il mio parere facendo solo 2 annotazioni.
    1) Personalmente ritengo che la cultura artistico-umanistica abbia lo stesso valore di quella logico-scientifica e queste 2 parti della cultura non rappresentano una il passato e l’altra il futuro dell’Europa, ma sono entrambe sia il passato che il futuro dell’Europa, dato che la Scienza (moderna o stricto sensu) nacque in Europa in età moderna con Galileo Galilei (di cui Copernico era stato il precursore) e che l’arte è un desiderio così connaturato nell’uomo che è impossibile immaginare che non abbia futuro. Magari la narrativa ha visto il suo punto più alto nell’800, l’arte stricto sensu (pittura, scultura e architettura) nel Rinascimento in Italia, la musica ha espresso i suoi vertici con Mozart e Beethoven, ciò non toglie, tuttavia, che possa ancora essere prodotta buona arte, degna di essere “creata” e fruita. Esistono inoltre arti giovani come il cinema o i videogame che ancora, probabilmente, devono raggiungere l’apice ed altre (come lo sport) che raggiungono l’apice minutamente in singoli eventi, piuttosto che in periodi.

    2) L’autore dell’articolo dopo aver scritto una splendida analisi per modestia non propone soluzioni lasciandole ad “altri più intelligenti”. Non penso di essere particolarmente intelligente, ma sul problema ho riflettuto a lungo per cui in questo specifico campo sono, se non esperto, perlomeno appassionato, cultore, comunque non un principiante. Da appassionato do quindi il mio parere.
    Le soluzioni che la quasi totalità degli esperti e degli appassionati dà sono fondamentalmente 3:
    I) l’utilizzo di una lingua moderna e in questo caso le possibili soluzioni proposte sono di solito l’inglese o lo spagnolo;
    II) l’utilizzo di una lingua antica come il latino nella sua forma classica o variamente modificata;
    III) l’utilizzo di una LIA (lingua internazionale ausiliaria), come l’esperanto o il womese.
    Vediamo queste soluzioni partitamente.

    I) L’utilizzo di una lingua moderna, quindi di una “lingua veicolare” richiede molto tempo per apprenderla e dà un vantaggio indebito ai madrelingua.
    Le eccezioni delle lingue storico-naturali, quelle grammaticali innanzitutto, ma anche quelle lessicali (si pensi ad esempio ai contrari o antonimi dei termini che non si formano regolarmente in quasi nessuna lingua storico-naturale) pur essendo una ricchezza per i parlanti madrelingua sono un’inutile complicazione per chi voglia apprenderle come lingue veicolari e impongono un punto di vista molto peculiare e, almeno parzialmente, irrazionale, appiattendo la babele linguistica, che è una ricchezza, verso la lingua unica e, volenti o nolenti, verso il pensiero unico.

    II) Il latino (ma ciò vale anche per qualsiasi altra lingua antica) può essere preso:
    1) nella sua forma classica (o medievale): in questo caso ha gli stessi difetti delle lingue veicolari moderne, salvo il fatto che non viene favorito uno o più popoli, ma una ristretta èlite colta (ed ecclesiastica), l’unica in grado di produrre tale lingua oralmente ad un livello linguisticamente accettabile;
    2) in una forma modificata e semplificata, per esempio togliendo i casi o riducendo ad 1 le declinazioni e/o ad 1 le coniugazioni; in questo caso il latino diventa una LIA ma perde la sua sinteticità; ciò non avviene se si riducono ad 1 sola le declinazioni e le coniugazioni ma permane la difficile adattabilità di un lessico che ha molte ridondanze e sovrapposizioni; in passato ci sono stati tentativi in tal senso come il “latino sine flexione” di Peano ma non hanno avuto grande successo; io stesso mi sono occupato delle declinazioni del latino nella LIA “latin-womese” presente nel volumetto “Differenze grammaticali dei primi womesidi”, mentre per la coniugazione bisognerebbe fare un lavoro palingenetico come quello proposto nel “ruman-womese”, presente nello stesso volumetto (fra qualche mese disponibile anche su Amazon). Non ho provato a scrivere l’intera LIA, ma la mia impressione, suffragata da una mia seppur parziale conoscenza del latino (al liceo ero bravo in questa materia), è che la bella lingua di Virgilio mal si presta, soprattutto da un punto di vista lessicale (ma anche come terminazioni che verrebbero stravolte, soprattutto quelle delle coniugazioni) ad un’operazione del genere.

    III) La terza opzione, cioè una LIA artificiale creata appositamente per la comunicazione internazionale, è nettamente preferibile da un punto di vista che non è solo il mio ma è stato autorevolmente sostenuto da illustri umanisti come Umberto Eco (per esempio nel suo libro “La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea”).

    La LIA ideale, a mio modesto avviso, deve essere:
    1) multiculturale: il womese ha questa caratteristica, dato che si può scrivere potenzialmente in tutti gli alfabeti del Mondo, purché vengano opportunamente modificati affinché vi sia una corrispondenza biunivoca con l’alfabeto latino che rimane il principale (ad ogni lettera dell’alfabeto latino deve corrispondere 1 ed 1 sola lettera di ciascun alfabeto modificato e viceversa, mentre i suoni rimangono gli stessi in tutti gli alfabeti): ho portato a termine con successo quest’operazione sia con l’alfabeto cirillico che con quello greco;
    2) simmetrica cioè paritarista per quanto riguarda il genere: in womese ci sono 3 generi grammaticali: maschile (-o), femminile (-a) e neutro (-e) che corrispondono sempre col genere naturale e in cui il neutro prevale;
    3) ordinata cioè:
    a) agglutinante: caratteristica che il womese condivide con l’esperanto da cui deriva;
    b) con il contrario lessicale che si forma regolarmente con un prefisso: caratteristica che il womese condivide con l’esperanto da cui deriva (ma in womese il prefisso è “fi-”, non “mal-” che si presta a fraintendimenti per i parlanti lingue neolatine);
    c) con la qualità lessicale assente o intermedia che si forma regolarmente con un prefisso: in womese a-/an- (il secondo solo davanti a vocale), caratteristica presente solo in parte in esperanto, dove “ne-” non è così diffuso come “a-/an-” in womese, né nelle grammatiche esperanto è specificato che è universalmente utilizzabile come si deduce inequivocabilmente dalla grammatica womese;
    4) con un lessico stabile e consolidato: il womese accoglie quasi totalmente, seppur con qualche piccola modifica grafica e/o fonetica, il lessico esperanto, a sua volta coincidente in gran parte con quello latino e neo-latino;
    5) espandibile: il womese è stato concepito in vista di possibili espansioni future sia nel lessico che nella morfo-sintassi che, eventualmente, nella fonologia; tali espansioni e/o modifiche possono avvenire in determinati congressi [sulla cui periodicità si discuterà quando e se il womese si diffonderà] su base democratica, avendo presente la facilità e la coerenza del sistema o possono essere determinate dall’uso);
    6) tollerante: il womese è, programmaticamente, una “lingua tollerante”, a più livelli, con un nocciolo duro di regole da non trasgredire, ma con molti elementi opzionali per adattare la lingua ad usi diversi, sempre col limite della facilità e coerenza complessiva;
    7) esteticamente bella e/o fine: il womese ha questa caratteristica dato che il neutro che è prevalente finisce per -e e dato che gli aggettivi nella loro forma standard finiscono in -eze (e quindi in “-e”).

    Per tutti questi motivi il womese è la LIA ideale ed è migliore dell’esperanto da cui deriva e che, finora, rappresentava la migliore soluzione per la comunicazione internazionale e paritaria fra i popoli e le culture.

    • Nicola Minnaja

      Caro Michele,
      hai fatto un’analisi approfondita del problema; dopo un giro su internet ti ho individuato come il “creatore” del” womese.;, è logico che tu sostenga la tua creatura, che è, per ora, l’ultima rielaborazione dell’esperanto. Tu metti in evidenza i vantaggi che il womese potrebbe presentare da un punto di vista linguistico, e lo confronti con l’esperanto del 1887. Non sono un linguista, e non sono in grado di giudicarli, ma tu non puoi prescindere dal fatto che l’esperanto ha fatto, negli ultimi 130 anni, molti passi avanti:, oltre a un certo numero di seguaci, (le pagine internet in esperanto sono visitate, secondo una recente statistica, da circa 100 mila lettori; le diverse riunioni in cui si parla esperanto muovono ogni anno, in Europa, qualche migliaio di persone), una letteratura ( fra originale e tradotta), di migliaia di libri, un certo numero di corsi a livello universitario in diversi paesi europei, una televisione accessibile in rete (http://esperantotv.net/channels/?channel=36995), circa 250 mila voci di Wikipedia tradotte in esperanto. Se tutto questo, oggi come oggi, è molto lontano dal poter scalfire il primato dell’inglese, non sarà un’altra lingua, sia pure ipoteticamente perfetta, ad avere la meglio.
      Vediamo come si è creata la situazione di oggi nel campo della scienza: ci sono state due ragioni. molti scienziati europei sono stati vittime delle leggi razziali (Fermi, il fisico italiano più brillante degli anni ’30, emigrò in America perché la moglie era ebrea); molte ricerche di fisica nucleare e di microelettronica sono state finanziate dal ministero della difesa USA, attirando scienziati di tutto il mondo con livelli di stipendio molto competitivi, e fornendo loro riviste scientifiche di alto livello su cui pubblicare i lavori non segreti. Quando poi l’Europa si è prefissa di raggiungere primati di eccellenza (vedi il CERN), si è trovata con una classe di scienziati capaci di pubblicare in inglese, e con i revisori delle riviste scientifiche più note, quelle che permettono di fare carriera, tutti provenienti dal mondo accademico americano. Prima della guerra le riviste scientifiche europee erano equamente distribuite su varie lingue; ora alcune mantengono solo i loro titoli di origine (in Italia, per la fisica,”Il Nuovo Cimento”), e si vantano di ospitare solo articoli in inglese.
      L’Europa nel suo complesso, e i singoli stati europei, si trovano ora a fronteggiare una situazione complicata. C’è una comunità che ha l’inglese come prima lingua (il che non necessariamente significa che è la lingua materna per tutti); ci sono altre comunità con prime lingue diverse,chiamate per convenzione lingue nazionali (al loro interno ci sono però altre comunità che vogliono affermare prime lingue diverse, di cui la più importante è il catalano) e con l’inglese imparato come seconda lingua da una frazione consistente (qui prescindo dalle diverse varianti dell’inglese, il correttore ortografico di Windows ne cataloga 19). L’Unione Europea si sforza di mantenere tutte le lingue nazionali alla pari, sobbarcandosi notevoli costi di traduzione e di testi e di interventi orali; tuttavia in molti casi ci sono asimmetrie (per esempio nella presentazione di progetti che concorrano per sovvenzioni comunitarie; inoltre in molte offerte di lavoro che fanno capo alla Commissione Europea è richiesto che l’inglese (quale?) sia la lingua materna). Se si vuole avere una lingua comune, questa dovrebbe marcare l’identità di una comunità; non può essere la prima lingua di una sola parte, per consistente che sia. I diversi stati-membri stanno cercando di reagire alla loro situazione di inferiorità cercando di introdurre l’inglese come seconda lingua obbligatoria nelle loro scuole; l’Italia pare invece che voglia mettersi su un’altra via abolendo l’insegnamento in italiano di un certo numero di materie, e quindi portando l’inglese ad essere la prima lingua e l’italiano la seconda; colpisce che questa possibilità, che pare spinta dal governo e dal primo ministro (o devo dire premier) in prima persona, non abbia suscitato un dibattito sulla stampa. Vediamo che cosa è successo in Italia nel XIX° secolo: ll dialetto (vernacolo) fiorentino colto è stato l’unico utilizzato nelle scuole;lo scopo, ovviamente, era quello di creare un’identità nazionale per una comunità appena arrivata al livello di nazione gli altri dialetti, puniti con la matita rossa e blu, sono stati ghettizzati, hanno perso la loro tradizione letteraria e sopravvivono a mala pena. È questa la posizione che vogliamo per l’italiano in Europa rispetto ad un inglese prima lingua per tutti? O è possibile acquisire lo stato di secondalingua,ma contemporaneamente didi identificatore di una comunità, ad una lingua che sta già sostenendo questo ruolo in una comunità numericamente esigua, ma ideologicamente consapevole?

  13. esattamente.
    E ricordiamo allora anche Mario Tchou, l’ingegnere italo-cinese della Olivetti morto tragicamente in un incidente stradale del quale alcuni affermano che fosse stato tramato dai servizi americani: magari sono fantasie ma sta di fatto che il suo laboratorio assolutamente all’avanguardia per l’epoca e che decretava la leadership della Olivetti nel settore, fu, dopo l’incidente, acquistato dalla General Electric…..

    Insomma, affermare che gli anglosassoni sono dominanti nelle arti e nelle scienze è falso.

  14. #Dilloinitaliano sempre !

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