L'ultimo Natale sovietico, quel 25 dicembre in cui venne ammainata la bandiera rossa

La mattina del 25 dicembre 1991 il segretario generale del Partito comunista sovietico, nonché presidente dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, Michail Gorbačëv, andò in diretta televisiva annunciando al suo paese e al mondo le proprie dimissioni. Quel giorno la bandiera rossa venne fatta calare dal più alto pennone del Cremlino. L’URSS cessava di esistere.

Il disfacimento dell’Unione Sovietica fu un evento impensabile fino a pochi anni prima. Che la perestrojka potesse fallire era cosa che molti davano per scontato, specialmente tra le fila del partito, ma che essa coincidesse con la fine del paese nato a seguito della Rivoluzione d’Ottobre, nel 1917, era per tutti pura fantasia. Le riforme economiche e sociali di Gorbačëv, note come perestrojka (ristrutturazione) e glasnost (trasparenza) furono il più alto tentativo di cambiare – per salvarla – un’Unione Sovietica che segnava il passo nei confronti dei concorrenti occidentali e crollava sotto il peso dell’inefficienza economica. Gorbačëv si accorse dello stato delle cose fin dalla sua elezione a segretario generale del Partito comunista sovietico (Pcus) avvenuta nel 1985 e comprese l’impossibilità di procrastinare le riforme necessarie. Nel discorso al 27° congresso del Pcus, nel febbraio 1986, fece una analisi impietosa del degrado politico, economico, tecnologico e morale del paese.

L’Urss si trovava tagliato fuori dalla rivoluzione telematica in atto; la competizione militare assottigliava le risorse dello stato, pur mantenendo l’esercito a livelli di poco inferiore a quelli occidentali; la gestione centralizzata del sistema produttivo non si curava per nulla dell’efficienza, della redditività e della qualità della produzione causando elevatissimi costi per lo stato e una cronica penuria di beni di consumo; l’agricoltura pagava ancora il prezzo della collettivizzazione forzata degli anni Venti; le esportazioni di materie prime (petrolio, gas, minerali) erano l’unica voce in attivo ma rendevano l’economia sovietica eccessivamente legata al valore di questi beni. Soprattutto, l’Urss era un paese di sudditi cui era negata la libera informazione, la coscienza individuale, il possesso di un appartamento, un semplice viaggio all’estero. Tutte le notizie venivano rivedute e corrette. Per fotocopiare i libri era necessario un nullaosta. Occorreva prenotarsi con un giorno di anticipo per ricevere una telefonata. Senza contare un apparato repressivo sempre vigile e attivo.

Gorbačëv decise di democratizzare la vita economica e politica del paese convinto che ne sarebbero sorte le energie sociali necessarie a risollevarne le sorti: reintroducendo a dosi controllate democrazia e liberismo sperava di togliere le incrostazioni di settant’anni di regime autocratico senza intaccare l’essenza socialista dell’Urss. Nella sua mente l’Urss sarebbe dovuto diventare capofila di un nuovo socialismo “dal volto umano”. Nella primavera del 1989 i cittadini sovietici poterono votare un terzo dei deputati del Congresso e in molti collegi il candidato favorito dal partito uscì sconfitto. Nel 1990 infine venne modificata la Costituzione togliendo così al partito il ruolo di guida delle istituzioni.

Ma il riformismo illuminato di Gorbačëv non piacque a nessuno. Non ai conservatori del partito, che il 19 agosto del 1991 tentarono un colpo di stato, né ai progressisti radicali che volevano una volta per tutte scrollarsi di dosso il potere sovietico. Il rimontare dei nazionalismi fece il resto. Quello che Gorbačëv non considerò fu il più radicale tra i nazionalismi, quello russo, che vide in Boris El’cin un suo campione. El’cin, che raccoglieva anche le simpatie dei progressisti radicali, scavò la terra sotto i piedi di Gorbačëv. In qualità di presidente della Russia l’otto dicembre 1991 firmò con gli omologhi bielorusso e ucraino l’Accordo di Belaveža che sanciva la nascita della Comunità degli Stati indipendenti (CSI) e la fine dell’Urss.

Così quel 25 dicembre Michail Gorbačëv si presentò in televisione rassegnando le dimissioni da presidente di un paese che non c’era già più. La sua uscita di scena non scatenò manifestazioni di piazza, nessuno a Mosca scese in strada a sostenerlo, e l’Unione Sovietica sparì dalla storia senza un grido.

Gorbačëv fu responsabile anche di scelte sbagliate, come la campagna contro l’alcolismo che lo fece odiare dalla popolazione e che causò il fiorire della produzione clandestina; l’incoraggiamento del nazionalismo nel Caucaso, cui poi il Cremlino non seppe far fronte; o l’istituzione di presidenti nelle repubbliche sovietiche che favorì lo sgretolamento dell’Urss. Uno sgretolamento avvenuto con eccessiva rapidità e che consegnò all’instabilità economica una serie di paesi impreparati al brusco passaggio, favorendo l’ascesa di nuovi autoritarismi ammantati di democrazia e la rapacità di ceti oligarchici corrotti e criminali. Di Gorbačëv resta il ricordo di un uomo dalla grande visione politica che però non ebbe il polso del paese: convinto che si potesse calare la democrazia dall’alto fu sopraffatto dalle spinte emergenti. In Russia è ricordato con astio e antipatia, tuttavia a lui si deve l’inizio di un percorso non ancora ultimato che pose il cittadino russo al centro della vita politica emancipandolo dal ruolo di suddito. Un ruolo cui nessuno – dentro e fuori il paese – deve più riconsegnarlo.

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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Un commento

  1. Gorbačëv ha, a causa della sua ingenua fiducia nei partner occidentali, ha distrutto il Paese.

    La democratizzazione dell’Urss era un obiettivo condivisibile, ma la messa in pratica è stata un’autentica catastrofe.

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