La stagione delle donne kamikadze

Donne, giovani donne. Il terrorismo che infiamma la Russia ha il volto e i nomi di giovani ragazze: le sorelle Ganieva, Zoulikhan Elikhadjieva, le sorelle Naguieva, Miriam Toubourova e oggi Djannet Abdoullaeva, 17 anni, giovane vedova di Oumalat Magomedov,soprannominato l’Emiro per aver comandato in passato i ribelli daghestani, e liquidato dai russi nel dicembre 2009. Lei, Djannet, è stata identificata come esecutrice di uno degli attentati del 29 marzo scorso nel pieno centro di Mosca. Attentati che videro 39 m0rti tra i civili. I resti carbonizzati delle due attentatrici non sono stati di facile riconoscimento per la polizia russa ma lei, Djannet, era da tempo tenuta d’occhio dai servizi segreti che non hanno saputo però prevenire il suo estremo gesto.

Donne kamikadze che colpiscono il cuore della Russia, facendola sentire fragile. Donne anch’esse fragili, vedove di combattenti ceceni o daghestani, che dopo la morte del marito si avvicinano all’islam wahabita caucasico che le usa come strumenti di guerra.

“Non è ancora possibile chiarire come Djannet Abdoullaeva si sia avvicinata al terrorismo”, scrive il quotidiano moscovita Kommersant. “Ma sembra che dopo la morte del marito sia stata persuasa dagli ideologi wahabiti di Saïd Bouriatski (ucciso a marzo dalle forze antiterroriste russe) che l’hanno convinta a suicidarsi per vendicarlo”. Ecco che la donna è due volte vittima: l’islam fondamentalista wahabita costringe in stato di marginalità e subordinazione la donna che, dopo la morte del marito, si trova socialmente esposta e culturalmente indifesa. Il fondamentalismo ha allora gioco facile nel trasformare queste ragazze in “martiri dell’islam”.

Il percorso e il profilo psicologico delle chakhidki , dall’arabo chahid,martire“, è stato oggetto di numerose riflessioni in Russia specialmente dal 2002, quando la stagione delle ragazze kamikadze provenienti dal Caucaso settentrionale ha preso avvio.  Tra queste, una più di tutte si è impressa nella memoria collettiva russa: si tratta di Zarema Moujakhoeva, l’unica terrorista ad aver rinunciato all’attentato consegnandosi alla polizia. Sotto la veste aveva una cintura d’esplosivo. E’ stata condannata a 24 anni di reclusione nel 2004. La giustizia russa non fa sconti a chi si pente.

Ma torniamo a Djannet, di lei si sa che è nata nel villaggio di Kostek, nella regione del Kassaviourt, in Daghestan, località nota per il suo record di morti nelle azioni di guerriglia contro Mosca. Pare abbia conosciuto Oumalat Magomedov, suo futuro marito nel 2008, su Internet. Oumalat, dal canto suo, era già braccio destro di Dokou Oumarov, leader dei separatisti islamici (autoproclamatosi Emiro del Caucaso) tanto forte da saper tenere uniti tutti i ribelli del nord Caucaso, ingusci, daghestani, ceceni che siano.  Ribelli oppure, come dice Mosca, terroristi. Indipendentisti che trovano nell’Islam wahabita un motivo di coesione. E se troppo spesso si associa alla parola “islam” l’aggettivo “fondamentalista” con meri propositi propagandistici, è pur vero che il wahabitismo è una pericolosa versione dell’islamismo.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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