da LONDRA – Tutti conoscono i simboli dell’identità scozzese: il kilt – il gonnellino in lana i cui motivi tartan rappresentano il ‘clan’ di appartenenza – o le cornamuse, strumento musicale tipico delle Highlands. C’è poi l’elemento linguistico, quella lingua Scots, di origine germanica ma distinta dall’inglese, parlata in quasi tutta la Scozia meridionale, e la lingua “gaelico-scozzese” parlata nel nord. Questi elementi non sono tuttavia così autenticamente scozzesi come si pensa.
In The invention of tradition, raccolta di saggi curata da Eric Hobsbawn e pubblicata dalla Cambridge University press nel 1983, si trova una fondamentale analisi della tradizione scozzese, a firma di Hugh Trevor-Roper. L’autore spiega come gli elementi oggi riconosciuti quali simboli dell’identità scozzese siano una invenzione retrospettiva. La cosa non deve stupire poiché le identità culturali nascono per contrapposizione e finché la Scozia è stata una nazione indipendente non ha prodotto elementi distintivi. Esistevano certo dei “caratteri” dell’essere scozzese ma non erano assurti a simboli della nazionalità. Questi simboli cominciano a formarsi durante il Romanticismo che, con la sua re-invenzione del Medioevo, ha di fatto creato molti elementi identitari poi confluiti nei nazionalismi ottocenteschi.
Il kilt, per come lo conosciamo noi, è infatti un’invenzione di tale Thomas Rawlinson, imprenditore inglese del ‘700, proprietario di fornaci in Scozia. Durante una visita nelle Highlands vide che i poveri del luogo vestivano con una lunga coperta in lana grezza con motivi tartan che, cadendo dalle spalle, copriva l’intero corpo ed era fermata in vita da una cintura facendo così sembrare la parte inferiore una gonna. Rawlinson ebbe l’idea di realizzare un gonnellino, staccato dalla coperta, e ne inventò una tradizione a fini puramente commerciali. Il kilt è quindi un abbigliamento moderno che il movimento romantico impose come segno di “antichità”.
Una storia recente è anche quella del tartan, il motivo noto appunto come “scozzese”. Tipico nelle coperte delle genti povere delle Highlands, cominciò a diffondersi grazie all’invenzione del kilt, ma fu solo nel 1820 che il tartan divenne una vera e propria moda. A renderlo famoso fu una visita in Scozia di re Giorgio IV (1762-1830) che, per far fronte alle sommosse popolari della cosiddetta Radical War, decise di recarsi a Edimburgo come segno di vicinanza verso la popolazione. La visita fu organizzata da sir Walter Scott, autore del celebre romanzo storico Ivanhoe, il quale si impegnò affinché il percorso del sovrano fosse ricoperto con un tappeto realizzato in motivi tartan, in voga in quel periodo. La realizzazione del tappeto diede da lavorare a molti artigiani locali e la visita del sovrano riaccese l’ardore monarchico degli scozzesi disinnescando le rivolte. Quella visita è ricordata come l’atto di nascita della moderna identità scozzese, fiera della sua diversità ma fedele alla corona, che ha nei kilt e nel tartan i suoi “simboli”.
A contribuire a creare un’identità culturale scozzese fu soprattutto l’opera di James Macpherson, autore dei celebri Canti di Ossian, dati alle stampe nel 1761 e opera fondamentale della letteratura pre-romantica europea. Mecpherson affermò che quei canti erano la traduzione di un antico poema celtico del III° secolo, da lui rinvenuto nelle Highlands. L’opera, che racconta le vicende di Fingal, personaggio della mitologia celtica, per bocca del figlio Ossian, testimonierebbe l’esistenza di una remota civiltà, fiera e guerresca, antesignana dei moderni scozzesi. L’autenticità delle presunte traduzioni fu messa in discussione fin da subito da Samuel Johnson, tra i più insigni letterati inglesi del XVIII° secolo, e oggi sappiamo che si trattava di un falso: i Canti di Ossian sono infatti il frutto della fantasia di Mecpherson. Questo nulla toglie al valore letterario di un’opera che inaugurò il Romanticismo europeo, ma gioca del tutto a sfavore della presunta identità celtica degli scozzesi, un’identità che però si affermò nel corso dell’Ottocento in modo strumentale al fine di rivendicare una irriducibile diversità rispetto agli inglesi e, quindi, poter avanzare richieste di autonomia.
La diversità è però assai ardua da dimostrare. La lingua celtica, tutt’oggi parlata da appena 60mila persone (su 5 milioni di scozzesi), rappresenta una minoranza nel quadro delle lingua parlate in Scozia dove, dopo l’inglese, la più diffusa è lo Scots, una lingua di origine germanica sviluppatasi probabilmente in epoca medievale da un dialetto inglese del nord. Parlato da quasi 2 milioni di persone è la vera lingua locale scozzese, al punto che oggi la BBC dedica un canale alla programmazione in lingua Scots, ma sono gli stessi parlanti a ritenerla un dialetto: nel 2010 il governo scozzese pubblicò una ricerca dal titolo “Public attitudes towards the Scots language” in cui si riportava come il 64% degli intervistati ritenesse lo scozzese un dialetto inglese. Insomma, la lingua Scots poco si attaglia ad essere l’elemento caratterizzante dell’identità scozzese, così vicina all’inglese: meglio – come fece Mecpherson – rivolgersi alla lingua celtica e al misterioso e suggestivo retaggio culturale delle Highlands.
Tuttavia la lingua celtica non ha molto a che fare con la Scozia. In The invention of tradition, Hugh Trevor-Roper spiega come le Highlands fossero, nell’Alto Medioevo, “etnicamente e culturalmente una colonia irlandese”. Le popolazioni celtiche dell’Irlanda – scrive Trevor-Roper – attraversarono nel V° secolo lo stretto braccio di mare che separa l’isola dalla Scozia e si stabilirono nelle “terre alte” dando origine a un regno celtico, noto con il nome di Dalriada. Considerato tradizionalmente un regno scozzese, a causa di un estensione territoriale prevalente in quella che oggi è la Scozia, il regno di Dalriada aveva in realtà la sua base in Ulster.
Fu la necessità di costruire un’identità nazionale da contrapporre a quella inglese, e su cui costruire rivendicazioni di libertà e indipendenza, a motivare l’invenzione di alcuni elementi distintivi. E occorre ribadire come essi si svilupparono solo dopo l’atto di Unione con l’Inghilterra del 1707. Prima di quella data essi esistevano in forme meno codificate ed erano visti come eredità di una cultura barbara che andava rifiutata, specie in una Edimburgo che stava diventando una delle capitali dell’Illuminismo europeo guadagnandosi l’appellativo di “Atene del nord”: qui operavano infatti Adam Smith, Thomas Reid, David Hume. Forse anche grazie all’eredità illuminista, il nazionalismo scozzese non si è mai connotato per radicalismo.
Anche oggi il dibattito ruota attorno a questioni economiche e non c’è il minimo accenno a “etnicismi” o altri radicalismi. Quello che oggi interessa a Edimburgo è scrollarsi di dosso una Londra percepita come oppressiva. La discriminazione degli stranieri non è all’ordine del giorno come invece lo è in Inghilterra, dove il governo Cameron – con le sue retoriche contro romeni, bulgari e altri immigrati europei – sembra molto più “nazionalista” dei nazionalisti scozzesi.
Quanto il discorso identitario peserà sul risultato del voto? Abbiamo visto che le ragioni degli indipendentisti sono principalmente economiche e sociali e forse sarà proprio la mancanza di un marcato carattere nazionale a giocare a sfavore dell’indipendenza. L’antropologo francese Jean-Loup Amselle scrisse, in modo illuminato, che l’identità non è un prodotto confezionato, calato dall’alto, bensì è frutto della scelta individuale e può mutare nel corso della vita di un individuo come nella storia di un gruppo umano. Il 18 settembre sapremo se gli scozzesi si sentono, tutto sommato, britannici, oppure no.
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