“Cari amici sono stato eletto poco fa dal Parlamento all’unanimità Presidente della nostra Repubblica. Ringrazio tutti i boemi e gli slovacchi e anche gli appartenenti ad altre minoranze. Vi prometto che non deluderò la vostra fiducia e porterò questo paese alle elezioni libere”.
Era il 29 dicembre 1989, ore 12. Con queste semplici parole Vaclav Havel, drammaturgo boemo, ex-dissidente –capelli e baffi chiari, sorriso accattivante che illumina un volto ancora giovanile seppure segnato da rughe frutto di duri anni di carcere– si rivolge a una folla festante, affacciato al balcone del Castello di Praga.
Un discorso sobrio, quello pronunciato dal neopresidente dopo il giuramento prestato alle 10:25 nella sala Ladislao del Castello Hradcany, davanti all’Assemblea Federale, accompagnato dalle note del Libuše di Smetana.
Sobrio, ma capace di imprimersi nella memoria collettiva di un popolo, i cecoslovacchi, che quel 29 dicembre di ventuno anni fa abbandonano la loro proverbiale indole saturnina e crepuscolare e salutano in migliaia, con un’esplosione di gioia, calore e affetto, l’elezione a Capo dello Stato del leader di Charta 77 e l’uscita definitiva da un incubo comunista durato 41 anni.
“Havel dovette fare un paio di tentativi prima di riuscire a parlare” – ricorda Flaminia Bussotti, all’epoca corrispondente da Praga dell’Ansa.
“ L’entusiasmo della folla copriva la sua voce con applausi, cori di evviva, di ‘egregio presidente ha la nostra stima’ e lo slogan che ha contrappuntato dall’inizio la protesta popolare, ‘è arrivato il momento’ ”
“Faceva davvero molto effetto – continua la Bussotti – vedere i cecoslovacchi, che non sono certo euforici come gli ungheresi, accompagnare con applausi e cori il discorso di Havel”.
“Di quel breve discorso – sottolinea l’inviata dell’Ansa – mi colpì molto la solenne promessa del presidente di non deludere. Promesse del genere le possono fare solo uomini di grande integrità morale, uomini per cui le parole sono testimonianza umana di verità”.
La rivoluzione di Velluto, iniziata il 17 novembre con una manifestazione studentesca, che ricordava il cinquantesimo anniversario del martirio di Jan Opletal, studente ceco ucciso dai nazisti, si conclude sei settimane più tardi, con l’elezione alla massima carica dello Stato di un uomo, Vaclav Havel, che smette i panni di regista e drammaturgo per diventare il protagonista dell’opera teatrale più importante della sua vita. Quella che narra il lungo e travagliato percorso di un intellettuale, che dopo anni di fiera e intransigente opposizione al regime, corona finalmente un sogno di libertà per sé e per il suo popolo.
L’elezione di Havel, uomo per cui si può scomodare una volta tanto l’abusato termine di “leader carismatico” alla Max Weber, è un evento a forte valenza simbolica che rappresenta la quadratura di un cerchio. Havel infatti accetta la candidatura a Presidente dell’Assemblea, dopo estenuanti trattative tra il Forum Civico e il Partito comunista, a patto che Alexander Dubček, ex leader della Primavera di Praga, venga nominato Presidente del Parlamento. Il ritorno di Dubček, riapparso nella capitale boema il 24 novembre, a vent’anni di distanza dall’espulsione dal Partito, dopo un lungo periodo trascorso come manovale di un’impresa forestale in Slovacchia, segna, anche a detta della Bussotti, un punto di svolta nelle proteste di piazza.
“Per me, da osservatrice occidentale, che viveva a Praga ormai da sei mesi, l’irreversibilità palese della situazione, tanto che scrissi in un dispaccio Ansa ‘il regime è capitolato’, si ebbe il 24 novembre quando da un balcone di Piazza Venceslao resuscitò Dubček.” Il ripescaggio di Dubček, personaggio dimenticato e offeso dalla storia, è il segnale che non si può più tornare indietro.
La mossa di Havel di averlo al suo fianco risulta fondamentale per attenuare le rivalità mai sopite tra cechi e slovacchi e per trovare la migliore sintesi possibile, nonostante le diversità di prospettiva politica (l’ex leader comunista crede ancora in un socialismo “dal volto umano”) tra gli ideali democratici della Primavera di Praga e quelli dell’89.
Quando, salutata la folla, il Presidente, assieme alla moglie Olga e ad altri famigliari, entra attraverso la Porta d’Oro nella cattedrale di San Vito e, dopo essersi inchinato di fronte alle reliquie dei re boemi e di Santa Agnese, si appresta ad assistere alla messa del Te Deum, Dubček è lì.
Ad officiare la funzione, abolita in epoca comunista, il cardinale Tomášek. Anche per il novantenne primate ceco, che sabato 25 novembre durante una funzione religiosa dedicata alla memoria dì Sant’Anna di Boemia aveva invitato i fedeli ad alzare la testa e a raddrizzarsi – “… non possiamo più trascurare la salute spirituale e morale del popolo. Tutto ha fine. Solo Dio è eterno. Luce, forza, vittoria.” – quel 29 dicembre rappresenta il coronamento di un sogno. Quello di congedarsi dalla vita terrena – morirà due anni più tardi – lasciando in eredità alle nuove generazioni un paese libero.
Nel corso della toccante omelia, trasmessa in diretta televisiva e seguita da migliaia di cecoslovacchi, Tomášek ringrazierà il Signore per “la grande speranza che ci ha dato in questi giorni…”