KULTURA: Honeymoons di Goran Paskaljevic. Storie d'amore respinte alla frontiera

Riceviamo e pubblichiamo a stretto giro di posta quest’ottima recensione al film Honeymoons, di Goran Paskaljievic, regista serbo diplomatosi alla scuola di cinema di Praga (la stessa dove hanno studiato Polanski e Kusturica). Noto soprattutto per “La polveriera”, film ironico e cupa sulla cruda catastrofe che attende Belgrado, iniziò la carriera come documentarista. La recensione è firmata da una nostra lettrice, Anna Castellari, giramondo babeliana del Friuli, che ringraziamo.

di Anna Castellari

Cos’hanno in comune due giovani serbi che hanno studiato, intellettuali e raffinati, e vogliono perseguire i loro sogni in occidente, con due giovani albanesi venuti dalla campagna più profonda, che sognano un futuro migliore in Italia? In apparenza, se non si considera il desiderio comune di uscire dal proprio paese, poco o niente. In realtà, una volta varcata la frontiera, “l’accoglienza” che riserva loro la polizia ungherese e quella italiana. Che di ospitale ha ben poco.

È questa la storia di Honeymoons, il film di Goran Paskaljevic presentato fuori concorso alla prima serata del Trieste Film Festival 2010. La fabula – ordinarie e straordinarie storie di coppie che s’innamorano e attraversano fasi dell’innamoramento, sognano insieme, decidono di trovare un futuro migliore fuori dal proprio paese dopo le tragedie della guerra, della crisi economica dei paesi di provenienza, andando contro le aspirazioni dei genitori – lega le due storie parallele. E fa più da contorno per esprimere le sensazioni e le angosce degli emigranti (non clandestini) che da pretesto per raccontare se stessa.

Le due storie parallele sono unite da un unico comune denominatore, ben rappresentato dall’immagine del treno merci che passa la frontiera ungherese dalla Serbia, mentre il musicista lo guarda tristemente. Uomini trattati come merci, merci trasportate sui treni oltrefrontiera con meno difficoltà rispetto a quelle riservate alle persone.

E non si tratta, si badi bene, di clandestini che tentano di raggiungere i paesi dell’Europa occidentale  via gommone o su treni merci. Sono coppie di giovani che, verosimilmente, si sono procurati un visto, che hanno investito le proprie risorse monetarie, me anche intellettuali, sul proprio futuro nei paesi di destinazione. Che hanno imparato la lezione dei migranti che, prima di loro, hanno tentato di entrare clandestinamente in Europa. 

Tutto il film è immerso in un’ambientazione realistica, perché non eccessivamente drammatica, né troppo comica, che disegna i ritratti delle due famiglie di provenienza dei protagonisti. Nel contesto albanese è notevolmente marcato lo scontro tra città e campagna, tra esibizione del lusso nell’upper class cittadina e il rispetto delle tradizioni nella campagna: ciò viene particolarmente alla luce nell’episodio del film in cui la famiglia albanese si reca al matrimonio di alcuni parenti a Tirana. Entrambi i matrimoni che il film riprende, sia quello serbo che quello albanese, ricordano certe scene alla Kusturica (Gatto nero gatto bianco, tanto per dirne uno), con tanto di spari in aria nella migliore tradizione balcanica. Due popoli che si assomigliano nelle loro differenze – ma nel caso dell’Albania le atmosfere di lusso ostentato ricordano i romanzi di Ornela Vorpsi, voce letteraria contemporanea tra le più significative del paese delle aquile – ma che soffrono ancora i conflitti del passato, riassumibili in un territorio, il Kosovo. E pagano ancora adesso le conseguenze di quei conflitti. 

Il ragazzo albanese, finito in una cella a Brindisi in attesa di accertamenti sul suo passaporto mentre la ragazza che lo accompagna è persa in un paese di cui ignora tutto, dialoga con un altro emigrante albanese sul costo del passaporto. Il suo interlocutore è convinto che aver speso mille euro per il visto sia garanzia di legalità: come se tutto si potesse comprare, come se i sogni si vendessero a suon di euro. E lo stesso emigrante, che si lamenta del trattamento riservatogli dagli italiani, protesta per il fatto di essere finito in cella con “dei negri”, in un momento amaro di comicità paradossale non infrequente nella pellicola.

Il finale resta volutamente sospeso: le coppie restano immobilizzate nella pellicola l’una al porto di Brindisi e l’altra alla stazione dei treni serba. E i sogni delle due coppie rimangono bloccati alla frontiera. 

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2 commenti

  1. grazie per la citazione, abbiamo twittato il link alla bella recensione: http://twitter.com/#!/TriesteFilmFest/status/25762427770

    p.s. e complimenti per il blog!

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