TURCHIA: L'offensiva della fondazione Emre, alla conquista dei Balcani

di Matteo Zola

 

Sarajevo, tifo calcistico. Foto di Matteo Zola

 

Yunus Emre era un mistico sufi e un poeta attivo nel XIII secolo in Anatolia, fu uno dei primi a comporre versi in lingua turca, idioma che allora non aveva la stessa dignità letteraria del persiano o dell’arabo. Emre è oggi il corrispettivo turco di Goethe o Cervantes, almeno nel campo degli istituti di cultura. Il governo di Ankara punta infatti alla penetrazione culturale quale arma privilegiata in politica estera. Terra di conquista: l’area dell’ex impero ottomano, ma non solo. Anche nell’Europa occidentale si moltiplicano gli istituti Emre, dediti all’insegnamento della lingua turca, e nei Paesi islamici del bacino mediterraneo.

La particolarità degli istituti Emre è che fanno capo a una fondazione omonima che risponde direttamente al Ministero degli Esteri.

Nata con l’obiettivo di sostenere la candidatura di Istanbul a capitale della cultura europea del 2010, oggi ha lo scopo preciso di promuovere l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Almeno questo è l’obiettivo dichiarato. La fondazione Emre raccoglie però intorno a sè una serie di investimenti, pubblici e privati, che finanziano -ad esempio- la ricostruzione di moschee e madrase nell’ex-Jugoslavia martoriata dalla guerra degli anni Novanta, specialmente in Bosnia e Macedonia.

 

Ricostruzione della Moschea di Mustafa-Pasha di Skopjie finanziata dalla Gazi University di Ankara. Foto di Matteo Zola

 

Non a caso, infatti, dopo l’investitura solenne del maggio scorso da parte del presidente Gül, dal primo ministro Erdoğan, dal ministro degli Esteri Davutoğlu, la prima sede aperta all’estero è stata quella di Sarajevo. Non a caso. Oggi la Bosnia è alla ricerca di una nuova identità: i serbi e i croati possono continuare a guardare alle rispettive madripatrie ma i musulmani vedono nella Turchia (e nel dominio ottomano che introdusse l’Islam nei Balcani) la radice della loro cultura.

Perché proprio Sarajevo? Come si è detto, per una questione culturale. Ma non solo. La Bosnia è il perno della politica economica di Ankara nei Balcani. Che la Turchia investa nei Balcani, usandoli come trampolino diplomatico verso la Ue, non è motivo di biasimo. Resta il dubbio che -insieme agli investimenti- giunga anche un Islam meno moderato di quello autoctono. La Turchia, un tempo simbolo di laicità, è oggi orientata al recupero dell’Islam come elemento identitario. Non sta a noi giudicare se la religione è un fattore di minore o maggiore democrazia. Il fatto che a essere ricostruite siano moschee e madrase la dice lunga, poiché quelli sono luoghi di diffusione della cultura. E se i soldi della ricostruzione sono turchi, anche la cultura sarà filo-turca.

L’offensiva di Ankara nei Balcani è, abbiamo visto, politica, economica e culturale. Il rischio dell’esportazione di un Islam meno tollerante di quello autoctono è tutto da dimostrare, è vero. Esso è però una possibilità da prendere in considerazione poiché è arduo comprendere oggi quale strada seguirà la nuova Turchia: se verso l’Islam radicale o verso la democrazia, se verso Teheran o verso Bruxelles. Ma è certo che -qualsiasi direzione prenda- Ankara cercherà di portare con sé i Balcani.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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5 commenti

  1. Finché l’islam “importato” è quello anatolico, si può essere quasi tranquilli che non sarà un islam radicale, perché l’islam tipico della Turchia non è paragonabile a quello di paesi vicini come l’Iran, o alle correnti wahabite o salafite…

  2. Gli investimenti turchi nei Balcani rientrano probabilmente nelle normali strategie di un Paese importante con mire geo-strategiche di respiro regionale. Non credo comunque sia l’influenza dell’islam turco da temere, quanto piuttosto quello di altri Paesi (se non ricordo male, la costruzione della nuova madrasa si Sarajevo è stata costruita con i fondi dell’Arabia Saudita). Se davvero i musulmani di Bosnia, per non sentirsi isolati in un’Europa che sottolinea le proprie “radici cristiane” o semplicemente in un Paese dove le altre etnie possono guardare agli stati confinanti, devono avere un riferimento, meglio che questo sia la Turchia, che forse invece tutelerà proprio un islam non-fondamentalista

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