Il genocidio “Urkun” rappresenta uno dei capitoli più oscuri della storia dell’Asia Centrale. Il 29 ottobre si ricordano i 110 anni del genocidio, quando nel 1916, durante la prima guerra mondiale, migliaia di kirghisi e kazaki furono vittime di una brutale repressione da parte dell’Impero Russo. La rivolta, nata come protesta contro la coscrizione forzata, si trasformò in un massacro e in un esodo di massa verso la Cina.
Le origini del conflitto
Le radici dell’Urkun affondano nella politica coloniale zarista del XIX secolo. Dopo l’abolizione della servitù della gleba, il governo russo avviò una massiccia colonizzazione agricola in Asia Centrale, confiscando terre alle popolazioni nomadi. Tra il 1897 e il 1917, la popolazione russa della regione crebbe da 200.000 a oltre 750.000 persone, alterando gli equilibri sociali e alimentando tensioni etniche.
La rivolta e la repressione
La sollevazione iniziò il 17 luglio 1916 a Khujand (odierno Tagikistan), dove una folla distrusse gli elenchi di leva. In breve tempo, l’insurrezione si estese a vaste aree del Kazakistan e del Kirghizistan odierni. A Semireč’e, l’attuale regione del lago Issyk-Kul, i combattimenti assunsero un carattere etnico: villaggi di coloni russi vennero attaccati, mentre le forze zariste reagirono con estrema brutalità.
Il generale Kuropatkin, governatore del Turkestan e già noto per la sua durezza in Asia Centrale, ordinò la repressione militare e l’espulsione di massa dei kirghisi e dei kazaki dalle zone ribelli. Il 29 ottobre 1916, egli decretò lo sgombero forzato di oltre 37.000 famiglie – più di 186.000 persone – dai distretti di Issyk-Kul, Prževal’sk e Pishpek. L’obiettivo era trasformare queste aree in territori “strategici” popolati esclusivamente da insediamenti cosacchi, rafforzando il controllo militare dell’Impero Russo ai confini con la Cina e l’India britannica.
Secondo gli storici, tale decisione rappresentò una forma di pulizia etnica pianificata, volta a rimuovere la popolazione musulmana indigena per sostituirla con coloni russi fedeli al regime.
L’esodo e la tragedia umanitaria
Per sfuggire alle violenze e alla confisca delle terre, centinaia di migliaia di kirghisi e kazaki intrapresero una fuga disperata verso la Cina, attraverso i valichi montani del Tien Shan. Questo esodo, noto come Urkun, si trasformò in una catastrofe: la marcia avvenne in condizioni estreme, con il gelo, la fame e gli attacchi dei cosacchi alle spalle.
Le stime sulle vittime variano tra 100.000 e 500.000 persone, uccise nei combattimenti, lungo le rotte dell’esodo o morte di stenti nei valichi di montagna. Nella sola traversata del passo di Shamsi, si calcola che 1.500 profughi – in gran parte donne, anziani e bambini – siano stati massacrati. Altri 83.000 morirono in territorio cinese, secondo le fonti dell’epoca.
Una pagina rimossa dalla storia
Durante il periodo sovietico, l’insurrezione del 1916 venne reinterpretata come una lotta rivoluzionaria contro lo zarismo, mentre le sue cause etniche e coloniali furono in gran parte taciute. Figure come Imanov e Džangildin furono celebrate come eroi popolari, ma l’aspetto genocidario dell’Urkun restò nell’ombra.
Solo dopo l’indipendenza delle repubbliche centroasiatiche, negli anni ’90, la tragedia cominciò a essere studiata come un episodio di resistenza nazionale e di repressione coloniale. Storici come Eleri Bitikchi hanno definito i documenti dell’epoca “prove dirette di un’operazione di pulizia etnica organizzata”, sottolineando la sistematicità delle deportazioni e l’intenzione di eliminare la presenza indigena in aree strategiche.
La memoria dell’Urkun
Oggi, in Kirghizistan, il 1916 è ricordato come un anno di lutto nazionale. Nel 2016, per il centenario, è stato inaugurato il Memoriale di Ata-Beyit, vicino a Biškek, dedicato alle vittime dell’Urkun. Le autorità kirghise hanno istituito le Giornate della Storia e della Memoria degli Antenati (7–8 novembre), per onorare i caduti e tramandare la memoria di una tragedia a lungo dimenticata. Anche in Kazakistan, monumenti e cerimonie commemorano il sacrificio delle popolazioni nomadi durante la repressione zarista.
Un genocidio dimenticato
L’Urkun rimane uno dei più gravi episodi di violenza coloniale del primo Novecento. In un’epoca segnata dalle guerre mondiali e dai crolli degli imperi, la tragedia dei kirghisi e dei kazaki testimonia la fragilità dei popoli privati della propria terra e della propria identità. Riscoprire oggi quella storia non significa solo rendere giustizia alle vittime, ma comprendere le radici profonde delle tensioni etniche e culturali che ancora attraversano l’Asia Centrale.
L’Urkun non fu solo una rivolta contro un decreto, ma un grido di sopravvivenza di un popolo minacciato di scomparsa. Un genocidio mai conosciuto, ma che merita di essere ricordato come una delle più tragiche pagine della storia moderna.
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