In Ungheria è possibile ritracciare le falle del sistema di sanzioni UE.
Da Budapest – Proprio in questi giorni, in cui da più parti si solleva la proposta di nuove sanzioni UE per la Russia di Putin, è utile dare un’occhiata al caso Ungheria. Da più di dieci anni il governo Orbán si muove su un binario diverso da quello tracciato da Bruxelles, ricevendo in cambio sanzioni che non hanno ottenuto il risultato sperato. La questione sul tavolo è lo stato di diritto, ossia la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo garantita dalla legge.
Era il 2013 quando venne approvato il quarto emendamento della nuova Legge fondamentale ungherese, che limita de iure e de facto i poteri della Corte Costituzionale. Da quel momento in poi l’Europa ha assistito inerme all’involuzione politica di uno Stato membro con un passaggio repentino, in termini storici, da una forma di potere democratica ad una autocratica. L’UE, nel caso dell’Ungheria, ha mostrato tutti i suoi limiti.
I limiti dell’UE
I limiti di Bruxelles consistono nell’aver utilizzato tardi e male gli strumenti a sua disposizione. Si tratta dell’articolo 7 del Trattato dell’Unione Europa che consente di sospendere alcuni diritti (tra cui il diritto di voto) di uno Stato membro, qualora esso violi gravemente e persistentemente i valori fondamentali dell’Unione. La procedura, già lunga e complessa di suo, è stata avviata solo nell’autunno del 2018, quando il governo Orbán, forte dei risultati delle due precedenti elezioni, aveva ampiamente messo sotto controllo politico tutti gli organi statali.
Per non parlare poi dei report di monitoraggio della Commissione Europea, che, per quanto precisi e puntuali, non hanno avuto alcun seguito dal punto di vista decisionale.
Due anni fa, a causa della decisione del governo di trasformare le università statali in fondazioni private, la UE ha risposto con il congelamento di una parte dei fondi strutturali verso l’Ungheria e con l’esclusione di 21 università dal programma Erasmus (scambio studenti e professori) e dal programma Horizon Europe (ricerca). Ad oggi la controversia è ancora in corso e l’unico risultato è stato aver privato il mondo accademico ungherese della preziosa opportunità di studiare e fare ricerca all’estero.
E sui fondi finanziari usati come deterrente per la riabilitazione dei diritti e delle libertà individuali violati si sta assistendo ad un vero tira e molla.
Proprio nel caso della sanzione relativa ai programmi di scambio e di ricerca accademici, la penale sarebbe stata più alta se nel frattempo Orbán non avesse negoziato il ritiro di due veti che bloccavano, uno, un pacchetto di aiuti finanziari all’Ucraina, e, l’altro, l’imposizione di una tassa minima al 15% sul fatturato europeo delle multinazionali.
Vedendo qualche barlume di risultato, l’UE ha proseguito sulla strada della sospensione (parziale) dei pagamenti dei fondi di Coesione e di Ripresa e Resilienza. Così, da due anni a questa parte, la Commissione europea congela alcuni pagamenti verso l’Ungheria senza, tuttavia, giungere a significativi progressi nel ripristino dello stato di diritto. Anzi, si può affermare il contrario: che oggi la situazione è concretamente peggiorata con rapporti politici di potere consolidati e con un sistema economico clientelare.
I motivi del fallimento delle sanzioni UE
I motivi del fallimento di questa politica del tira e molla sono stati delineati da Zoltán Szente, professore di diritto presso l’Institute for Legal Studies del centro di ricerca magiaro HUN-REN, che proprio in questi giorni, in sordina, su decisione del governo e a rischio della propria indipendenza, è stato inglobato dall’università di Budapest ELTE.
Il primo motivo è il ritardo nell’applicazione delle sanzioni. La macchina burocratica UE non riesce a seguire il ritmo del governo ungherese, che si muove in maniera decisamente più repentina. «Probabilmente – spiega Szente – era più facile credere che il problema fossero solo le carenze dello stato di diritto piuttosto che affrontare la costruzione sistematica di una moderna autocrazia in uno Stato membro». Al di là del fattore tempo c’è, dunque, il problema di non aver compreso la situazione in atto, ossia la «progressiva e graduale erosione della democrazia».
Il secondo motivo sta nel fatto che la Commissione europea si limita a sollevare obiezioni, imponendo il rispetto dei requisiti UE attraverso formali procedure legislative. Inutile in un Paese in cui il parlamento ha perso la sua autonomia e il governo gode di «onnipotenza costituzionale» e dunque può approvare o abrogare qualsiasi legge quando vuole.
La mancanza di serietà nel comminare sanzioni è un altro punto a sfavore dell’UE. Secondo Szente, la Commissione europea non prende sul serio le proprie sanzioni e sblocca i fondi non appena vede che il governo Orbán cede su alcune questioni formali.
In realtà, si tratta – da parte di Budapest – di una tattica ben rodata, venuta alla luce del sole con l’attuale, complessa e cruenta, situazione in Ucraina. La violenta campagna anti Kiev con i veti posti contro l’invio di aiuti militari e contro la richiesta di adesione all’Unione dimostra che Orbán vuole mettere sotto scacco Bruxelles giocando ad un crudele do ut des: un veto per lo stato di diritto. E se questo fosse reale, che ne resta della credibilità politica della UE?
È certo che la transizione autoritaria ungherese non è responsabilità dell’UE, ma è pur vero che l’attuale sistema autocratico non si sarebbe potuto costruire senza i sussidi e i vantaggi dell’adesione all’Unione. Tutto il sistema Orbán si fonda sul binomio sussidi-sanzioni. Senza finanziamenti europei non sarebbe esistito. E, ora che le posizioni di potere sono state acquisite, non ci sono sanzioni che lo possano smantellare.
Oggi per l’Ungheria c’è poco da fare relativamente allo stato di diritto. Solo, forse, le elezioni nazionali previste per la prossima primavera potrebbero essere il banco di prova per un cambiamento.
Per l’UE, invece, il caso Ungheria è l’occasione per comprendere che, benché i suoi valori fondamentali siano incondizionati e imprescrittibili, il loro rispetto deve essere rivendicato in ogni circostanza. L’Unione europea non può permettersi di dare per scontato che la propria idea di democrazia sia accolta ovunque, come la migliore possibile. È stata pura illusione pensare che l’Unione fosse sinonimo di compattezza e di condivisione di ideali comuni.
La politica estera e il sistema di difesa europei ne sono la prova.
Foto: https://www.ansa.it/europa/notizie/rubriche/altrenews/2022/07/07/ungheria-accetta-condizioni-dellue-per-via-libera-al-pnrr_ab063bd5-2acb-4a50-834f-1322239b7379.html