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KOSOVO: Dopo il voto. Una campagna elettorale conflittuale e ininfluente

A due mesi dalle elezioni che hanno riconfermato Vetëvendosje! (LVV) come primo partito e a pochi giorni dall’inaugurazione del nuovo parlamento – prevista per il 15 aprile – BIRN Kosovo (Balkan Investigation Reporting Network) ha diffuso un rapporto intitolato “Hate Speech and Disinformation During the 2025 Election in Kosovo” che fa luce sul clima pesantemente conflittuale vissuto nelle settimane precedenti il voto, nonché sull’impatto giocato dalla disinformazione sull’esito finale della consultazione.

Il clima preelettorale, tra odio e misoginia

La ricerca di BIRN Kosovo, commissionata dall’Unione europea, si basa sul monitoraggio condotto nel mese precedente la tornata elettorale su venti stazioni radiotelevisive attive nel paese, locali e nazionali, oltre che su quello di emittenti serbe e albanesi con un’audience significativa in Kosovo.

Il quadro a emergere è un misto delle peggiori nefandezze possibili nel campo della comunicazione, tra odio e disinformazione, demonizzazione e misoginia. E – ancora – disumanizzazione dell’avversario, omofobia, insulti assortiti, attacchi personali, spesso associati a una narrazione etnica. A farne le spese le donne, innanzi tutto, in un paese che fa tuttora fatica a uscire dall’ancestrale logica patriarcale (le candidate sono state ben al di sotto della soglia prevista dalla vigente legge sulla parità di genere). Ma anche – più semplicemente – l’avversario politico raffigurato come un criminale, un corrotto, un incompetente, persino un minorato mentale.

Addirittura un traditore della patria, come nel caso di Nenad Rašić, politico serbo-kosovaro a capo del movimento “Per la Libertà, la Giustizia e la Sopravvivenza”, in opposizione alla Lista Serba (Srpski List), il partito filo-Belgrado largamente maggioritario nel nord del Kosovo: l’essere stato appellato come “pedina in mano a Kurti”, “falso serbo” – la definizione è nientemeno che dell’ex primo ministro serbo Miloš Vučević prima della sua defenestrazione – o, ancora, come un  “orso da circo” non gli ha comunque impedito di essere poi eletto al parlamento di Pristina.

La jungla dell’informazione e Il fallimento degli enti di controllo

Dal canto loro c’è stata la totale assenza di trasparenza della maggior parte delle emittenti e l’assoluta noncuranza delle più elementari regole deontologiche, come quello del controllo delle fonti di informazione. Notizie che vengono proposte senza verifica, fatte rimbalzare all’infinito, scientemente date in pasto ai social, nella consapevolezza della loro inaudita potenza nell’amplificare qualsivoglia baggianata, come un virus dilagante, un flusso inarrestabile.

Il ruolo di Facebook e di Tik Tok è stato determinante, in questo senso, così come evidenziato dalla stessa BIRN che nel suo lavoro di fact-checking ha individuato non meno di duecento notizie inventate di sana pianta, il più delle volte da account anonimi. Così come quello delle nuove tecnologie legate all’Intelligenza artificiale che hanno messo nelle mani degli inquinatori di pozzi per professione uno strumento di straordinaria efficacia per la creazione e la proliferazione di immagini e video fasulli. Un terreno dove è stato facilissimo infilarsi, soprattutto per alcuni media russi e serbi, per il resto totalmente votati a descrivere il Kosovo come un paese sull’orlo di un nuovo conflitto, in cui sarebbe in atto un violento processo di “albanizzazione” e di pulizia etnica ai danni della popolazione serba.

Sebbene le elezioni – le prime a scadenza naturale dalla nascita del Kosovo indipendente – si siano svolte in modo regolare, lo studio di BIRN certifica inequivocabilmente il fallimento del paese nel trovare le necessarie contromisure per salvaguardare la veridicità delle informazioni. La Commissione Indipendente sui Media (IMC), l’ente statale di verifica e controllo dei contenuti audiovisivi, si è trovata di fatto esautorata di ogni autorità, con un parlamento incapace di rinnovare il mandato ai suoi membri – scaduto da mesi – e, di conseguenza non in grado di portare avanti il proprio compito.

Il (non) dibattito: e se l’insulto non servisse a niente?

I partiti, da una parte e dall’altra, hanno di fatto boicottato ogni forma di dibattito – zero aperture al dialogo, men che meno confronti pubblici – trasformando la campagna elettorale in un monologo tanto autoreferenziale quanto violento, tanto unidirezionale quanto vuoto di contenuti, col risultato – paradossale – di risultare complessivamente inservibile, financo neutrale all’esito finale del voto.

Come se la cortina fumogena sollevata dalle reciproche intolleranze, dall’estremizzazione delle proprie posizioni e, ancora, dall’inconciliabilità dei diversi punti di vista, avesse – alla fine – portato all’unico esito possibile: la polarizzazione degli schieramenti, l’arroccamento inespugnabile sulle proprie barricate, la mineralizzazione delle proprie verità, vere o presunte che siano. Un dialogo tra sordi, dunque, in cui ognuno appare disponibile ad ascoltare solo sé stesso in cerca della conferma alle proprie certezze preconcette, nell’indisponibilità a qualsivoglia beneficio del dubbio, e persino nell’impermeabilità all’insulto, alla bufala denigratoria, alla diffamazione farlocca, al ciarpame. Tragicamente inscalfibili all’odio altrui, in definitiva.

È il documento stesso che avvalora questa conclusione, per quanto indirettamente. Solo un elettore su dieci tra quelli che hanno votato per Vetëvendosje ha dichiarato di aver preso posizione in campagna elettorale, qualcuno di più per gli altri principali partiti, poca roba. La campagna elettorale ha mosso solo un pugno di voti, null’altro che quello; è stata ininfluente, inutile, è stata solo veleno buttato tra la gente, benzina gettata sul fuoco di una società ancora a metà del guado nel lungo passaggio post-bellico. Un risultato in qualche misura consolatorio, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno: così come magramente consolatoria può essere la considerazione che l’ingiuria può servire solo a regalarti un momento di vacua eccitazione emotiva, quel togliersi un peso dallo stomaco – se così si può dire. Ma che, in definitiva, non serve a spostare voti, quelli no. Quantomeno nel breve e medio periodo.

C’è però l’altra faccia della medaglia, la parte vuota del bicchiere, non meno importante, anzi. Al netto del fatto che un clima del genere non sembra favorire nessuno, la prima vittima di questo contesto è il confronto vero, quello finalizzato alla ricerca delle soluzioni dei problemi che affliggono la gente comune. È BIRN stessa a evidenziare la marginalità nella discussione preelettorale del nodo relativo al percorso di integrazione europea, ad esempio, e a sottolineare la sclerotizzazione del dibattito sui temi economici e sociali in chiave aprioristicamente polemica. L’odio non serve a portare il pane a casa, serve forse solo a imbandire la tavola di pochi, sempre quelli.

(Foto BIRN.eu)

Chi è Pietro Aleotti

Milanese per caso, errabondo per natura, è attualmente basato in Kazakhstan. Svariati articoli su temi ambientali, pubblicati in tutto il mondo. Collabora con East Journal da Ottobre 2018 per la redazione Balcani ma di Balcani ha scritto anche per Limes, l’Espresso e Left. E’ anche autore per il teatro: il suo monologo “Bosnia e il rinoceronte di pezza” ha vinto il premio l’Edizione 2018 ed è arrivato secondo alla XVI edizione del Premio Letterario Internazionale Lago Gerundo. Nel 2019 il suo racconto "La colazione di Alima" è stato finalista e menzione speciale al "Premio Internazionale Quasimodo". Nel 2021 il racconto "Resta, Alima - il racconto di un anno" è stato menzione di merito al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

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