Le proteste popolari originatesi come reazione alle drammatiche vicende del maggio scorso – due stragi in cui hanno perso la vita diciassette persone, tra cui otto bambini – e proseguite per tutta l’estate sotto lo slogan “Serbia contro la violenza” hanno portato a un duplice effetto. Il primo è stato l’indizione di nuove elezioni parlamentari, chiamate dal presidente Aleksandar Vučić per il prossimo 17 dicembre, il secondo la creazione di un ampio fronte politico che riunisce una buona fetta dell’opposizione al governo uscente.
Le opposizioni unite
Il primo effetto, tuttavia, si configura come la classica vittoria di Pirro: era stato infatti lo stesso Vučić – all’indomani dell’ultima vittoriosa tornata elettorale dell’aprile 2022 – a indicare in massimo due anni la durata del nuovo esecutivo. Non solo, ma l’accorpamento delle elezioni generali con quelle per il rinnovo dell’amministrazione di Belgrado (oltre che nella provincia della Vojvodina), consentirà al presidente serbo di puntare su una campagna elettorale focalizzata su tematiche di respiro nazionale, permettendogli – dunque – la marginalizzazione dal dibattito delle peculiarità attinenti la capitale, dove è assai più impopolare e dove l’opposizione ha comunque chance concrete di successo. Un boomerang, dunque.
L’ufficializzazione della creazione di una coalizione delle forze d’opposizione è arrivata – attesa – alla fine di ottobre, come “naturale” conseguenza della sintonia maturata nei mesi dei movimenti di piazza e del contestuale ostruzionismo in parlamento. Della coalizione, che manterrà la definizione fondante di “Serbia contro la Violenza” (Srbija Protiv Nasilja, SPN) faranno parte il Partito Libertà e Giustizia (SSP), il Partito Democratico (DS), il Movimento popolare serbo (NPS) e il Fronte dei Verdi di sinistra (ZLF). Hanno inoltre aderito il movimento Il Cuore (Srce) guidato da Zdravko Ponos – arrivato subito dietro Vučić alle ultime elezioni presidenziali – e altre forze ecologiste e liberali.
Un raggruppamento variegato, dunque, coagulatosi più attorno alla comune ostilità verso l’establishment attuale che per l’effettiva condivisione di una piattaforma politica omogenea; piattaforma che appare piuttosto generica e che, al di là di un proprio radicamento centrista e filoeuropeista, è basata su una visione socioeconomica appena abbozzata (“vogliamo investire nell’istruzione, per creare opportunità per i giovani”), vagamente orientata a temi ecologisti (“vogliamo organizzare la Serbia in modo da non essere avvelenati dall’aria che respiriamo o dal cibo che mangiamo”) e ingenuamente autoreferenziale (“Il governo che formeremo non ascolterà nessuno, né da Pechino o da Mosca, né da Berlino o Washington”). Dichiarazione, quest’ultima, rilasciata dall’ex sindaco di Belgrado e attuale leader di SSP, Dragan Đilas.
La campagna elettorale
Troppo poco per pensare di poter impensierire Vučić e la sua corazzata, quel Partito Progressista Serbo (SNS) al potere da oltre dieci anni e che, da oltre dieci anni è il primo partito serbo, solo parzialmente ridimensionato nell’ultimo turno elettorale. Troppo poco in un paese in cui i media, sia pubblici che privati, sono in gran parte in mano al governo, che li utilizza in modo egemonico, spesso intimidatorio, per dar voce al “padrone” e gettare discredito sulle controparti. Un monopolio di fatto che, fuori da Belgrado, rende SNS e i centri di potere che vi orbitano intorno pressoché invincibile; al punto che l’ultimo rapporto redatto da Freedom House, ha relegato la Serbia tra le nazioni solo “parzialmente libere”.
Una macchina da guerra elettorale che è già in moto per edulcorare una situazione che descrive un paese in profonda crisi economica e con un tasso di inflazione con picchi che, quest’anno, hanno superato il 15% causando l’erosione drammatica del potere d’acquisto dei serbi: ecco allora il presidente serbo mostrarsi mentre addenta un panino alla mortadella promettendo sorridente che “la prossima settimana i prezzi di dieci tipi di prodotti più importanti verranno ridotti”. O, ancora, affrettarsi ad aumentare le pensioni, sebbene in modo poco più che simbolico. Un film già visto, non solo da queste parti.
I sondaggi
Sono e saranno i temi economici quelli al centro della campagna elettorale, lo sa bene Vučić e lo sa bene il governo. Il resto sembra marginale: le pressioni internazionali per allineare la Serbia sulle sanzioni contro la Russia (con tutto ciò che questo significa in prospettiva europea), la presa di posizione dell’Unione europea per i fatti di Banjska, in generale tutto il “dossier Kosovo”. Temi di importanza strategica – fondamentali – ma che sembrano interessare più Bruxelles che la casalinga di Novi Sad.
Sono i numeri a dirlo in modo cristallino. Se il desiderio di Europa appare in costante calo allettando ormai assai meno della metà della popolazione, più sorprendenti sono i dati relativi all’importanza attribuita dai serbi alla questione Kosovo e alle possibili conseguenze internazionali sul paese dell’operato dell’esecutivo. Secondo un sondaggio appena pubblicato dall’istituto NSPM, ben il 25% dei serbi non ha un’opinione in merito ma, elemento ancor più significativo, la popolarità del Partito Progressista non sembra essere stata scalfita dall’escalation di tensione con Pristina. Anzi. Considerando i dati proposti dall’istituto, si osserva come la recente crisi con il vicino kosovaro abbia determinato solo variazioni trascurabili nelle intenzioni di voto, come se le “minacce” internazionali e i toni accesi fossero scivolati via senza lasciar traccia, nell’indifferenza dei più.
L’elettore medio sembra impermeabile a tematiche che, lontano dalle aree di confine, non riguardano la propria quotidianità, una “regionalizzazione” della questione che è invece il terreno entro cui si muovono la destra radicale e ampi settori della chiesa ortodossa. Una constatazione che offre, anche, un’ulteriore chiave di lettura al sacrificio imposto ad Aleksandar Vulin, la cui testa è stata platealmente offerta al mondo nei giorni scorsi. Certo è stata un’iniziativa figlia delle pressioni di Stati Uniti ed Europa e della necessità del presidente serbo di mantenere intatta la propria presentabilità internazionale. Tutto vero, tutto giusto. Ma è anche l’ammiccamento a quella quota parte di elettorato moderato per il quale l’ex capo dell’intelligence rappresentava un boccone troppo indigesto per essere ingoiato.
Pur nell’incertezza connaturata ai sondaggi, NSPM certifica che la partita per le elezioni parlamentari è già chiusa e che, con una percentuale vicino al 40%, SNS si appresta a essere riconfermato primo partito del paese. Se saprà resistere alla sconfitta e all’inevitabile deflagrazione che ne conseguirà, l’esperimento politico di “Serbia contro la violenza” sembra tuttavia un buon inizio. I sondaggi accreditano la nuova coalizione di un incoraggiante 25%, insufficiente a vincere le elezioni ma comunque superiore alla somma dei voti dei singoli partiti prima della loro aggregazione. Non era scontato.
Mettersi insieme sembra dunque la soluzione, la via giusta. C’è forse luce in fondo al tunnel ma la strada sembra ancora lunghissima e, soprattutto, tutt’altro che tracciata.
Foto: Euromunicazione.com