L'ultimo capolavoro di Agnieszka Holland, The Green Border, è uno dei film più scioccanti in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, vincitore del premio speicale della Giuria.

CINEMA: Venezia – il confine della crudeltà, intervista con Agnieszka Holland

L’ultimo capolavoro di Agnieszka Holland, The Green Border, è uno dei film più scioccanti in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, vincitore del premio speicale della Giuria.

Agnieszka Holland è una cineasta tra le più importanti dello scenario polacco, sia a livello storico che nella contemporaneità. Studente della FAMU di Praga, ha iniziato la sua carriera come assistente alla regia di Krzysztof Zanussi, in seguito ha collaborato con Kieslowski alla stesura della sua trilogia dei colori. Di certo è la regista donna polacca più importante, ricordata allo stesso livello dei registi precedenti, ma che al contrario di molti cineasti della Nuova Onda polacca ha saputo mantenere un livello eccellente anche nel XXImo secolo. Tra le sue opere ricordiamo Europa Europa, Un prete da uccidere, Il giardino segreto, In darkness (nominato agli oscar), L’ombra di Stalin (in originale, Mr. Jones), le sue collaborazioni televisive con la serie The Wire e House of Cards.

The Green Border è ambientato nel 2021, sul confine polacco-bielorusso, e racconta il dramma dei rifugiati siriani che si ritrovano ricacciati da uno all’altro confine senza sosta.

Cosa la ha spinto a fare un film su un argomento così attuale?

Quando la situazione è incominciata, due anni fa, mi sono sentita in dovere perché avevo già fatto due film sulla Shoah ed uno sul Holodomor e ritengo che ho analizzato molto il momento in cui la politica “normale” supera un punto di non ritorno. Penso che la situazione è questa. Il governo ha deciso di chiudere la zona di frontiera e di non permettere alle organizzazioni mediche ed umanitarie di entrare ad osservare, rendendolo di fatto un posto che chiamo “laboratorio di crudeltà e violenza”. Violenza su entrambi i lati del confine, il lato Bielorusso forse è più aggressivo ma non mi importa degli uomini di Lukashenko quanto a coloro che “difendono” i confini del mio paese. Il presidente Kaczynski ha detto che non permetterà ai media o ai cineasti di entrare nella zona perché gli americani lo avevano permesso in Vietnam ed hanno perso la guerra. Le sue intenzioni sono diventate molto ciniche e chiare. Sono una regista di finzione competente e so di essere in grado di ricreare la realtà in un modo diretto ed universale.

Si tratta anche del suo primo lungometraggio in bianco e nero. Perché questa scelta?

Avevo fatto un cortometraggio in bianco e nero alla scuola di cinema, ed anche un’altra successivamente. Ho sempre voluto fare un lungometraggio in bianco e nero. Visto che era un film indipendente, nel quale nessuno ci diceva cosa dovevamo fare, dovevamo trovare i fondi ma potevamo anche fare quello che volevamo. Volevamo che il film abbia un senso di urgenza come un documentario ma che al contempo possa avere un che di metaforico. Usando il bianco e nero eravamo in grado di controllarlo molto di più da un punto di vista artistico.

The Green Border ha una struttura ad episodi particolare, che permette di vedere gli eventi da molti punti di vista. Com’è venuta l’idea per questa struttura?

Ho contattato I miei sceneggiatori ed abbiamo considerato se prendere una sola situazione mostrare attraverso una “goccia d’acqua” il tutto, ma abbiamo deciso che visto che potrebbe essere il primo ed ultimo film su una situazione così particolare di includere diversi punti di vista. Abbiamo raccolto moltissimo materiale, uno degli sceneggiatori è andato nella foresta insieme agli attivisti e anche l’attrice che interpreta Julia, Maja Ostaszewska, è una vera attivista che ha aiutato anche sul campo e che è diventata una portavoce nei media. Ho invitato vari registi giovani a partecipare alle riprese, e molti degli attori hanno portato le proprie esperienze ed abbiamo riscritto molte parti in base alle loro sensibilità e conoscenze. Ho parlato recentemente con una delle attiviste che hanno collaborato e mi ha detto che prima di vedere il film era preoccupata che sarebbe sembrato “finto” in qualche modo, e dopo la visione non aveva alcun appunto. Credo che fossimo in uno stato di grazia da questo punto di vista.

Quale scena è stata la più difficile da girare secondo lei?

La scena più difficile era quella in cui Leila e Nur erano immersi nella palude. Era anche fisicamente difficile, volevo farlo con effetti speciali ma il ragazzo, che è il più meraviglioso e coraggioso ragazzo che puoi immaginare, ha voluto immergersi completamente nella palude.

Visto il contenuto di certe scene e la presenza di bambini, è logico chiedersi come siate riusciti a spiegare a loro cosa stava succedendo.

Volevamo essere poco manipolativi, volevamo mostrare qualcosa senza cadere nella “pornografia della violenza”. Credo che mostrare meno è più esaustivo però anche che a volte bisogna mostrare ciò che accade. Il mio lavoro è di aiutare gli attori, che sono persone talentuose e coscienziose, affinché si sentano liberi e allo stesso tempo al sicuro nel caso qualcosa non funzioni. Abbiamo fatto molti piani sequenza, eravamo una macchina da presa osservatrice. Gli attori avevano molta libertà. Era un’esperienza per ognuno di noi. I bambini erano rifugiati, oggi cittadini turchi, ma prima sono stati respinti sei volte tra il confine siriano e turco. Avevamo uno psicologo in scena, il loro padre, uno degli assistenti alla regia che li circondavano insieme agli attori adulti. Avevo paura di come sarebbe andata per loro, ma hanno compreso senza problemi e non sembrano scossi dalle riprese. Il loro padre era fortemente religioso e le riprese coincidevano con il Ramadan, non ho mai visto dei ragazzi così bilanciati.

Colpisce anche l’epilogo, che mostra la tolleranza nei confronti dei rifugiati ucraini. Qual’è la sua posizione riguardo a questo contrasto?

È la paura dell’estraneo, il razzismo che è diventato popolare ovunque. Per gli europei basta che uno abbia la pelle più scura. Il razzismo si è diffuso come un virus, ma è anche il lavoro preciso di politici di estrema destra che sfruttano questa diffidenza naturale per provocare paure e repulsioni. Per esempio il sig. Kaczynski ha vinto alle elezioni del 2015 dipingendo i rifugiati siriani come portatori di malattie, usando un linguaggio da nazisti. È nella natura umana temere il diverso, ma le autorità politiche e religiose riescono a lavorare su questa paura per farla crescere e per dare dei pretesti alle persone. La Polonia e L’Ucraina sono state a lungo nello stesso stato, ed hanno un nemico comune. Allo stesso tempo tra polacchi ed ucraini, nella Storia, ci sono stati vari scontri, i pogrom contro i polacchi durante la seconda guerra mondiale o l’occupazione polacca di gran parte dell’Ucraina. Il governo avrebbe potuto sfruttare queste rivalità o inventare una narrazione per cui i rifugiati ucraini, con il loro arrivo, avrebbero danneggiato il paese, ma la reazione della popolazione è stata immediatamente così solidale che la linea governativa si è adattata. Bisogna ricordare che i rifugiati siriani sono anch’essi vittime di Putin.

Trovare i fondi per un film di questo genere, in Polonia, non deve essere stato facile. Lei teme che ci possa essere una situazione di “censura” da parte del fondo nazionale polacco?

In Polonia, quando ho iniziato a cercare i fondi con il mio produttore non è stato facile. Non abbiamo provato nemmeno a cercare fondi presso l’istituto di cinema polacco, perché molti miei colleghi hanno provato a presentare i propri soggetti e sono stati rifiutati. Dimostra che i registi sono sensibili alla realtà ma non è facile trovare i fondi. Abbiamo le elezioni tra un mese. Se il governo corrente viene rieletto, il che è possibile, visto che hanno tutti gli strumenti e lo scontro è impari, la situazione potrebbe peggiorare.

In Italia, The Green Border è distribuito da Movies Inspired, che ha già curato la distribuzione di Charlatan, il precedente film di Agnieszka Holland. Ancora non è confermata la data d’uscita italiana.

Chi è Viktor Toth

Cinefilo focalizzato in particolare sul cinema dell'est, di cui scrive per East Journal, prima testata a cui collabora, aspirante regista. Recentemente laureato in Lingue e Letterature Straniere all'Università di Trieste, ha inoltre curato le riprese ed il montaggio per alcuni servizi dal confine ungherese-ucraino per il Telefriuli ed il TG Regionale RAI del Friuli-Venezia Giulia.

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