Andrea Borelli Putin

Putin non è fascista. Un libro di Andrea Borelli per capire il putinismo

Secondo molti osservatori, Putin sarebbe il volto del fascismo moderno. Un bel libro di Andrea Borelli ci mostra invece quanto il putinismo sia debitore allo stalinismo, aiutandoci a comprendere meglio l’ideologia del Cremlino…

TITOLO: Nella Russia di Putin. La costruzione di un’identità post-sovietica

AUTORE: Andrea Borelli

EDITORE: Carocci

ANNO: 2023

euro 15

Il putinismo non può dirsi una forma di neo-fascismo e tantomeno di nazionalismo. È questo il punto di partenza dell’analisi condotta da Andrea Borelli, storico dell’Europa orientale dell’università di Pisa, autore del libro “Nella Russia di Putin. La costruzione di un’identità post-sovietica“. Piuttosto, è nello stalinismo che va ricercata la radice del «sistema Putin», un sistema che si regge – spiega l’autore – su alcuni strumenti culturali, repressivi, linguistici tipici dell’epoca staliniana: la repressione del dissenso; la manipolazione elettorale; la celebrazione del passato; le politiche familiari tradizionaliste. Tutti «costrutti pratici e mentali che i russi hanno ereditato dallo stalinismo, non da esperienze storiche lontane nel tempo e nello spazio come il fascismo». Il putinismo, insomma, rielabora qualcosa che è già parte dell’orizzonte mentale dei russi, recuperando alcuni temi e simboli del periodo sovietico ricombinandoli però strumentalmente ai propri fini di potere.

Identità inclusiva e tradizione imperiale

In questo ricco ed agilissimo volume, Borelli ci guida nella comprensione del putinismo portandoci lontano dalle semplificazioni che hanno dominato, e ancora dominano, la narrazione del conflitto in corso secondo cui l’inquilino del Cremlino sarebbe il volto del fascismo di oggi, espressione di un suprematismo dalle tinte messianiche, accecato dal nazionalismo. Al contrario, la cultura politica delle classi dirigenti russe si lega a una lunga tradizione imperiale secondo cui «il popolo russo è una costruzione storico-culturale e la sua forza non si basa sulla purezza etnica, ma sulla condivisa appartenenza di tutti i suoi cittadini a una tradizione secolare». Insomma, si è russi se si aderisce a un sistema di valori, a una mentalità e a una memoria condivisa. Si tratta quindi di un’identità «inclusiva», spiega ancora Borelli, ampia se non vaga, adatta alle secolari ambizioni imperiali di un paese che occupa l’immenso spazio geopolitico eurasiatico.

Il putinismo necessario 

Il putinismo si appoggia su questa costruzione identitaria, proponendo così il proprio messaggio a un pubblico vastissimo, dentro e fuori dai confini della Federazione. Un messaggio che trova terreno fertile: «i russi non hanno bisogno di Putin per credere di essere un paese da sempre protagonista della storia internazionale, lo pensano da soli». Putin non ha costruito la propria ideologia dal nulla, ha piuttosto puntato su sentimenti radicati e condivisi. Tuttavia, egli ha saputo accreditarsi come il difensore di quei sentimenti, decidendo egli stesso quali tradizioni inserire nel proprio sistema ideologico e quali abbandonare. Ad esempio, spiega Borelli, la tradizione localista e anti-centralista è stata oscurata a favore di un centralismo imperiale. E l’umanesimo russo è stato messo da parte in nome di un rinnovato militarismo. La storia è lo strumento che il putinismo utilizza per affermare la propria continuità con il passato, sottoponendo quest’ultimo a un processo di revisione e rielaborazione destinato a prodursi in una vera e propria teleologia: il putinismo è l’esito inevitabile e necessario del percorso di una Russia che non può esistere se non come impero.

L’eredità dello stalinismo

Semplificando al massimo, il putinismo ruota attorno a due perni: l’idea imperiale e il controllo del passato. Ma gli addentellati sono molti. La volontà di costruire uno «stato forte» dentro e fuori dai confini nazionali attraverso il recupero di una narrativa imperiale si associa a una revisione dell’identità nazionale che, tuttavia, poggia su elementi tradizionali e su un lessico politico e ideologico già presente in Russia. Il putinismo non inventa nulla ma rielabora il passato. Nel farlo, attinge dal repertorio sovietico e – in particolare – dallo stalinismo. «Il putinismo ha costruito un “abito mentale” che possiede una vivida continuità con i principali aspetti dello stalinismo e gioca sulla familiarità di alcune idee, pratiche, miti e riti collettivi […] elaborati negli anni Trenta e Quaranta del Novecento dalla dittatura di Stalin».  In particolare, Borelli fa riferimento alla repressione del dissenso, al monopolio dei mezzi di informazione, alla manipolazione del sistema elettorale, alla celebrazione del passato e delle vittorie militari, a una visione sociale tradizionalista.

La statalizzazione della memoria

Controllare il passato è il modo migliore per controllare il presente. Ecco perché il putinismo pone grande enfasi sulle politiche di memoria «criminalizzando chiunque metta in dubbio la narrazione storica del regime». La statalizzazione della memoria si sviluppa attraverso un ampio ventaglio di iniziative che vanno dal cinema e dalla musica fino alla monumentalistica e ai musei per approdare infine alle istituzioni scolastiche e universitarie. Al centro di questa narrazione “c’è l’assunto che lo Stato è il fautore delle fortune del popolo russo, a sua volta vittima di forze esterne e traditori interni, ma glorioso vincitore” anche dei nemici più duri.

La parata del 9 maggio, giorno della Vittoria, che celebra la sconfitta del nazifascismo, rappresenta il culmine della strategia politico-identitaria del putinismo. La prima parata si tenne il 14 giugno del 1945, alla presenza di Stalin, ma nel corso degli anni la celebrazione perse progressivamente importanza a favore dell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. La fine dell’Unione Sovietica richiedeva un nuovo collante identitario e il Giorno della Vittoria, con la sua parata militare, si prestava a diventare il cardine della nuova narrazione storica putinista che vede la Russia come ultimo baluardo di fronte all’anarchia internazionale. Del resto, spiega Borelli, per “evitare” l’anarchia e difendere gli interessi russi il Cremlino era già intervenuto in Georgia, Libia e Siria. L’invasione dell’Ucraina non sarebbe che l’ultimo tassello, l’inevitabile esito di un disordine internazionale di cui la Russia non vuole cadere vittima. Così, attaccando per primo, «Putin ritiene probabilmente di aver superato in astuzia lo stesso Stalin, che tanto aspettò, pur teorizzando da anni l’inevitabilità della guerra, fino a farsi sorprendere dall’attacco della Germania di Hitler».

Insomma, come Stalin, meglio di Stalin. Il putinismo mira essenzialmente a una “redistribuzione del potere” in Europa e in virtù di quello che, secondo il Cremlino, sarebbe l’inevitabile declino americano. Muovendo da questi assunti, conclude Borelli, «il putinismo, in quanto cultura politica, appare incompatibile con il ritorno a una pace duratura nel vecchio continente», Nell’ultimo Concetto di politica estera pubblicato dal Cremlino nel 2023 si fa riferimento all’Occidente come a una minaccia e al vecchio continente come una spazio da integrare in un più ampio disegno euroasiatico a guida russa. Come Stalin, più di Stalin.

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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