La storia di tre madri, dei loro figli e di tanti bambini ucraini rapiti dai russi con l’inganno, tratta da un reportage del Times…

Una madre come tante, ma con una guerra addosso, sola perché sola – gli uomini vanno alla guerra, o comunque vanno – e giorno per giorno, fare quel che si deve fare, con poco margine di scelta. Specialmente quando in città arrivano loro, comandano loro, e poche storie. Come a Kherson, città dell’Ucraina meridionale, occupata dai russi fin dall’inizio del conflitto, annessa persino, con tutto lo sventolare delle bandiere e le regole dei nuovi padroni. Così lo scorso settembre, quando Lilia, undici anni, torna a casa tutta festante con la comunicazione della scuola che annuncia due settimane di colonia, sua madre Tatiana Vlaïko si inquieta. Una vacanza al mare in Crimea – dove regna sempre la primavera – e tutti i compagni hanno aderito, d’altronde è la scuola, ci si fida della scuola, anche perché non si può fare poi diversamente, il modulo non prevede l’opzione “non partecipa” ma solo lo spazio vuoto della firma e le indicazioni: trovarsi alle sei al porto fluviale, il giorno dopo. E così Tatiana accompagna la figlia, uno zaino coi vestiti, e il vaporetto saluta diretto al Mar Nero. Anche lei saluta e va alla fabbrica, una latteria industriale, sperando di vederla tornare.

Questa storia – raccontata dal Times in un reportage a firma di Christina Lamb – è solo una di molte analoghe. Bambini o ragazzi portati via dai territori occupati in modo silenzioso, apparentemente legale – una gita scolastica, un periodo lontano dalla guerra, in colonia oppure un programma di recupero per ragazzini i cui genitori sono dispersi, e nessuno si cura di cercarli, portati in Russia da Mariupol’, da Kherson, dai territori occupati. Una deportazione mascherata da umanitarismo. Già, perché poi i bambini non li senti più. Tatiana racconta delle telefonate sporadiche, difficile mettersi in contatto con la Crimea, la bambina stava bene, diceva che la mattina però le facevano cantare l’inno nazionale russo, ma che bello, aveva visto i delfini. Finché, dopo un po’, l’amara sorpresa: i bambini sono stati trasferiti altrove, un altro campo, ma dove? Il professore che li accompagna non lo dice. Non dice più niente. Sono seimila i casi di questo tipo, secondo uno studio dell’università di Yale, prelevati nel quadro di una campagna sistematica condotta dalle autorità russe.

Così dopo due settimane, Lilia non è rientrata. Daria Herassimtchouk, commissaria ucraina per i diritti dei bambini, intervistata dal Times dichiara: “Finora abbiamo identificato 16.221 casi di sottrazione di minore, ma penso che stiamo parlando di qualche centinaio di migliaia. Tutto questo fa parte della loro campagna di russificazione”. Secondo lei, i russi usano diversi modi per rapire i bambini: oltre all’inganno di mandarli in campo sportivi o colonie estive, li prelevano direttamente dagli orfanotrofi o dagli istituti a cui sono stati assegnati dopo che i genitori sono risultati dispersi; oppure separano genitori e figli nei cosiddetti campi di filtraggio.

Il fenomeno dell’abbandono di minori in Ucraina è elevato, e rappresentava un problema già prima della guerra, quando si registravano circa 105mila bambini collocati in orfanotrofi. La televisione russa ha trasmesso immagini di treni che trasportavano in Russia questi orfani affinché venissero adottati. La stessa Maria Lvova-Belova, commissaria russa per i diritti dell’infanzia, si è pubblicamente vantata di aver adottato un ragazzo di Mariupol’. Si potrebbe pensare che l’adozione da parte di una famiglia russa sia comunque preferibile a una vita da orfano nell’Ucraina in guerra, ma occorre guardare in profondità alla questione: si tratta di sottrazioni arbitrarie, esercitate da una forza occupante, senza criteri chiari e trasparenti. Una sottrazione illegale che nasconde obiettivi assai poco umanitari: russificare i figli del nemico, aumentando al contempo il numero di giovani in un paese in declino demografico.

Lioudmila Motytchak, 44 anni, di Kherson, ha ricevuto la solita comunicazione: un viaggio con la scuola in Crimea per “migliorare la salute” dei ragazzi e sua figlia, Anastassia, 15 anni, non stava nella pelle pensando al mare: “Non avevo di che pagare una vacanza, e Anastassia mi pregava di farla partire. E poi, non c’è stato molto tempo per rifletterci”. Il giorno dopo, davanti alla scuola, centinaia di bus. Centinaia, dice Lioudmilla al Times: “Come se stessero evacuando tutti i bambini di Kherson”. I genitori si sono fidati tutti. Meglio al mare che sulla linea del fronte. Al momento di rientrare, i ragazzi sono stati mandati in diversi campi in Crimea e le famiglie sono state raggiunte da messaggi su Telegram che le invitavano a raggiungere i figli: avrebbero ricevuto un appartamento e del denaro. Qualcuno è andato, ma Lioudmilla no: “Volevo recuperare mia figlia, non trasferirmi in Russia”.

Ogni contatto con la figlia si è interrotto all’indomani della liberazione di Kherson da parte delle forze ucraine. Nessuno è stato in grado di aiutarla, né la polizia, né la Croce Rossa, finché non ha sentito parlare di Save Ukraine, organizzazione non governativa guidata da Mykola Kouleba, già commissario per i diritti dell’infanzia, impegnata a recuperare i minori sottratti dai russi. È stato l’inizio di un lungo viaggio.

Lioudmila, insieme ad altri quindici genitori, parte su un pulmino dell’organizzazione verso la Crimea, con tutti i documenti necessari a dimostrare che Anastassia è figlia sua. Ma in Crimea non si entra. Il viaggio allora si trasforma in un lungo calvario in treno verso la Polonia, poi in Bielorussia, al confine russo chiedono se hanno mariti in guerra – ma anche lei è sola, e si passa –  e infine giù giù verso la Crimea. La stessa odissea è toccata a Tatiana. Se non fossero arrivate fin laggiù attraversando quattro frontiere, le loro figlie sarebbero finite in Russia. Il viaggio di ritorno è stato un racconto di sveglie mattutine con l’inno nazionale russo, ore di scuola in lingua russa in cui si insegnava di come il Cremlino fosse impegnato a salvarli tutti, i figli di Ucraina, da genitori che li avrebbero dimenticati e da un governo che li avrebbe abbandonati. Un vero e proprio campo di rieducazione.