Đinđić

SERBIA: Il fantasma di Zoran Đinđić, vent’anni dopo

A vent’anni esatti di distanza, l’assassinio del premier Zoran Đinđić aleggia ancora come un fantasma per le stanze del potere serbo. Quel proiettile, sparato da un fucile il 12 marzo del 2003 di fronte al palazzo del governo da Zvezdan Jovanović, membro dell’Unità per le operazioni speciali (JSO), incarna metaforicamente la parabola discendente di un paese che ancora oggi, per sua volontà, sembra incapace di raggiungere una piena statualità libera da ingerenze criminali.

La realtà all’insegna della continuità

La sensazione condivisa che la morte di Đinđić, primo premier serbo entrato in carica a seguito di libere elezioni, abbia influito sul processo di democratizzazione del paese è divenuta certezza col passare del tempo. La Serbia odierna è figlia di tale avvenimento, che ha avuto l’effetto paradossale di indirizzarla, in apparenza, verso quell’idea di democrazia moderna sognata proprio dal compianto leader del Partito Democratico (DS). La Serbia pre e post Đinđić risulta, per molti aspetti, all’insegna della continuità. I governi che si sono succeduti dopo di lui diedero sostanza a un’idea di cambiamento, quasi forzato in questi vent’anni trascorsi da quel 12 marzo, intraprendendo la via dell’integrazione europea, un dialogo per la normalizzazione dei rapporti con il Kosovo, la lotta alle infiltrazioni della criminalità organizzata nella vita politica del paese.

Il dato reale, però, racconta altro. Queste scelte non sono state fatte per segnare una cesura col passato, ma al contrario rappresentano le dinamiche di conservazione di quel potere che, nella storia recente serba, è gradualmente scivolato dalle mani delle istituzioni, e che ancora oggi circola tra centri occulti di potere, a volte più potenti dello stato stesso. Tali centri di potere (pensiamo alla Mano Nera/Crna Ruka, responsabile dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando I nel 1914), molto spesso nascevano dalle fila dell’unica istituzione capace di attrarre consensi, l’esercito, vero baluardo dell’idea nazionale.

Il bagaglio culturale che preparò il terreno alla JSO, però, proveniva anche dal modus operandi dei servizi di sicurezza dello stato. L’UDBA, ovvero i servizi segreti jugoslavi, sin dagli anni ’70, per volere di Josip Broz Tito, ricorsero ad ogni mezzo per eliminare i dissidenti politici, travalicando persino i confini nazionali e servendosi di esponenti della criminalità organizzata (Željko Ražnatović, meglio noto come Arkan, per fare un esempio). In cambio dei loro servigi al regime, i criminali ottenevano supporto logistico per le loro operazioni in Europa Occidentale, nonché l’impunità per vivere serenamente in patria. Ben presto si arrivò alla criminalizzazione dei servizi di sicurezza,  con la conseguenza che, a seguito della dissoluzione jugoslava, tali membri dell’UDBA seppero facilmente riciclarsi e spartirsi nuovi ruoli da ricoprire. Di fatto, parte del percorso seguito dal proiettile di Jovanović nasce da qui.

Le responsabilità politiche dell’assassinio

Zoran Đinđić cercò di sfuggire a tali dinamiche consolidate, e al pesante bagaglio di cultura politica che molti erano pronti ad accogliere, sino a pagare con la sua stessa vita. In occasione del ventesimo anniversario dell’omicidio, forse è giunta l’ora di indagare seriamente le responsabilità politiche di coloro che intrattenevano rapporti regolari con gli esecutori materiali del delitto.

La condanna a quarant’anni di carcere per Jovanović e altre undici persone appartenenti alla JSO, tra cui il suo comandante Ulemek “Legija”, così come lo smantellamento dello storico “clan di Zemun“, non ci aiutano a comprendere quel lascito politico, storico e culturale che li condusse alla decisione di sparare. L’eliminazione dalla scena politica di Đinđić è legata a doppio filo con la destituzione di Slobodan Milošević e la “rivoluzione” del 5 ottobre 2000. Un legame fondato non tanto sulle critiche che la caparbia volontà di Đinđić nell’estradare Milošević al Tribunale penale internazionale dell’Aja aveva attirato, quanto piuttosto sulle persone interessate a mantenere il proprio ruolo nel sistema. Il capolinea politico di Milosević fu funzionale all’esercito e ai servizi di sicurezza dello stato, rimasti saldamente ai propri posti con un semplice voltafaccia verso la coalizione dei partiti di opposizione. Ironicamente, proprio pochi giorni prima della dimostrazione di piazza, Đinđić entra con consapevolezza nella vicenda che porterà alla sua fine, e lo fa stringendo un patto con l’unità paramilitare di Legija affinché non attacchi i civili durante la manifestazione.

Tuttavia, nel confuso quadro istituzionale della Serbia post dittatura caratterizzato da un sistema legale debole e da uno stato incapace di detenere il pieno monopolio sull’uso della forza, la decisione dell’élite serba di seguire l’eredità politica dei servizi segreti jugoslavi, e scendere a patti con unità paramilitari e criminali non paga. In un primo momento Đinđić cade nella trappola dell’utilitarismo e stringe accordi con la JSO, non perché lo stato mancasse del potere coercitivo e non fosse in grado di combattere con la forza tali unità, ma per guadagnare il consenso popolare data la fama di eroi nazionali di cui godevano i “Berretti Rossi” di Legija nella società civile.

Quando, però, il premier si avvia verso la strada del riformismo per trasformare il paese in una democrazia moderna, si attiva l’istinto di autoconservazione degli organismi che detengono il potere. La decisione di estradare Milošević nell’agosto del 2001 lo separa definitivamente da Vojislav Koštunica e dal suo Partito Democratico di Serbia (DSS), mentre, nell’ottobre dello stesso anno, la cattura dei fratelli Banović rompe il patto con la JSO e fa scoppiare una rivolta. Inizia ufficialmente il conto alla rovescia che da lì a quindici mesi porterà all’omicidio, ma soprattutto ecco ripetersi lo schema adottato per defenestrare Milošević.

Operazione Sablja

Nei giorni immediatamente successivi al 12 marzo, in Serbia viene dichiarato lo stato d’emergenza e il governo dà il via all’Operazione Sablja per colpire gli organizzatori dell’assassinio del primo ministro. Ad essere colpita però, di nuovo come nel 2000, è solamente la leadership della struttura, senza che le ramificazioni del potere vengano stroncate. Alcuni membri dell’Unità furono arrestati per i crimini commessi, altri semplicemente riassegnati ad altre agenzie. La dichiarazione dello stato di eccezione e l’operazione mostrano, forse in maniera inconsapevole, quanto lo stato abbia avuto un ruolo nella morte di Đinđić.

L’apparato statale, infatti, non difettava della capacità di trattare con la forza la JSO, mancava la volontà di farlo. Eliminare Đinđić equivaleva a far scomparire l’idea di un riformismo radicale e immediato, avverso a quella parte di coalizione che propendeva invece per un legalismo incentrato su riforme lente e non traumatiche, ovvero sulla conservazione dell’eredità legale, politica ed ideologica del passato nazionalista, quella stessa idea di Grande Serbia che fu funzionale alla prima fase del governo Đinđić per non perdere consensi.

Grande Serbia, esercito, servizi segreti

“Grande Serbia”, esercito e servizi segreti. Eccolo il triangolo alla base della continuità istituzionale. Non sorprende, allora, che pochi giorni prima delle elezioni presidenziali del 2021, molti esponenti politici abbiano sospettato il presidente Aleksandar Vučić di un coinvolgimento nella petizione che chiedeva la liberazione anticipata di Jovanović, perché l’idea della glorificazione degli eroi di guerra attira sempre un buon numero di voti. Non sorprende neanche il fatto che nel 2020, quando la giornalista di KRIK Bojana Pavlović fotografò il figlio del presidente, Danilo Vučić, in compagnia di Aleksandar Vidojević (membro del clan montenegrino Kavac), fu raggiunta pochi minuti dopo da pubblici ufficiali che le chiesero di cancellare le foto. La legge, infatti, assegna all’esercito e ai servizi segreti il compito di assicurare l’incolumità del presidente della Repubblica e della sua famiglia.

L’assassinio di Zoran Đinđić dunque fu l’ennesimo rifacimento della facciata di un potere che tende a conservarsi. I soliti volti noti che accompagneranno la commemorazione per il ventennale della scomparsa del premier, rappresentano l’istantanea perfetta del mancato ricambio istituzionale per non perdere contatti con un passato capace di creare consensi.

Foto: Balkan Insight

Chi è Lorenzo Serafinelli

Classe 1999, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l'Università di Roma, la Sapienza. Attualmente, presso lo stesso istituto, sta conseguendo la laurea magistrale in Relazioni Internazionali e sicurezza globale. Esprime la sua passione per la storia e l'attualità dei Balcani Occidentali scrivendo per East Journal da luglio 2022.

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