STORIA: La lunga catena di omicidi dei servizi segreti jugoslavi

Il 28 luglio del 1983, Stjepan Đureković, ex partigiano, successivamente direttore della compagnia petrolifera statale jugoslava INA e poi dissidente critico del regime di Tito, veniva freddato a colpi di pistola nella cittadina tedesca di Wolfratshausen. Come dimostrato da un tribunale tedesco nel 2018, l’omicidio fu pianificato dalla famigerata UDBA, il servizio segreto jugoslavo. Quella di Đureković, però, non è una storia isolata: dal 1946 al 1990, la lista di omicidi perpetuati dall’UDBA in giro per il mondo è lunghissima. Una storia tragica, per anni celata dietro ai buoni rapporti vigenti tra la Jugoslavia di Tito e il blocco occidentale, e successivamente messa a tacere dalle élite dei nuovi Stati balcanici.

L’UDBA

L’UDBA, letteralmente l’Amministrazione Sicurezza Statale, fu istituita nel 1946 dal regime del Maresciallo Tito con il compito di garantire la sicurezza dello Stato jugoslavo. Sottoposta al controllo centrale del ministero degli Interni ed organizzata in modo decentrato nelle sei repubbliche che costituivano la Federazione, negli anni l’UDBA venne ristrutturata più volte, senza mai perdere il proprio potere di polizia politica e il suo interesse a perseguire ogni forma di dissidenza.

L’UDBA, negli anni, fu protagonista dell’arresto e dell’eliminazione di centinaia di cosiddetti “nemici dello Stato”: le eliminazioni avvenivano non solo all’interno dei confini jugoslavi, ma arrivarono a colpire i dissidenti in Europa, in primis nell’allora Germania Ovest, ma anche negli Stati Uniti, in Australia, in Argentina e in Sud Africa.

Gli omicidi

La lista delle persone uccise dall’UDBA in giro per il mondo non è completa e negli anni ben poco è venuto alla luce di quei fatti. Quel che è certo è che tra le vittime figurano soprattutto croati, ma anche serbi ed albanesi del Kosovo. Se ad accomunare le vittime vi è la critica al regime jugoslavo, tra loro esistono però profonde differenze.

Alcune delle personalità uccise dai servizi segreti jugoslavi erano veri e propri collaboratori del regime filonazista degli ustaša, che governò la Croazia negli anni della Seconda guerra mondiale macchiandosi di atroci crimini contro oppositori, ebrei e serbi. Scappati dalla Jugoslavia dopo la vittoria dei partigiani di Tito, alcuni di loro vennero raggiunti ed uccisi negli anni seguenti: è il caso di Vjekoslav “Maks” Luburić, generale responsabile della gestione dei campi di concentramento istituiti dal regime fascista croato, trovato morto nel 1969 nella sua abitazione in Spagna, dove il regime di Francisco Franco gli aveva dato ospitalità. Altre vittime erano invece attivisti dei circoli nazionalisti croati del dopoguerra. Tra questi, si ritrovano membri del Movimento Croato di Liberazione (HOP) o della Fratellanza Rivoluzionaria Croata (HRB), organizzazioni della diaspora croata dalle note simpatie verso il movimento ustaša, come ad esempio, Nahid Kulenović, ucciso dall’UDBA a Monaco nel 1969, o Stjepan Ševo, freddato nel 1972 a San Donà di Piave, vicino Venezia.

Tra le vittime croate, però, vi sono anche figure più moderate, dissidenti del regime di Tito ma non per questo sostenitori dell’ideologia ustaša. È questo il caso proprio di Đureković, avvicinatosi tardi ai circoli nazionalisti croati, dopo aver lasciato la Jugoslavia dopo una vita passata nella compagnia petrolifera statale dell’INA, e autore di alcuni testi che mettevano in luce tutte le criticità dell’economia della Federazione. O, ancora, di Bruno Bušić, perseguitato dal regime per alcuni suoi articoli sostenitori della causa croata, fuggito a Parigi, dove venne raggiunto ed ucciso nel 1978.

Le vittime dell’UDBA, però, non si limitano alla dissidenza croata. Nel 1977, lo scrittore serbo Dragiša Kašiković, caporedattore del giornale della diaspora serba anticomunista negli Stati Uniti, veniva violentemente assassinato con 64 coltellate nel suo ufficio a Chicago. Nel 1981, l’attivista, musicista, scrittore Jusuf Gërvalla, promotore della causa degli albanesi del Kosovo, veniva ucciso insieme al fratello Bardhosh e ad un altro attivista, Kadri Zeka, a Stoccarda, in Germania Ovest. Kosovaro albanese era anche l’attivista Enver Hadri, ucciso a Bruxelles nel 1990, probabilmente l’ultima vittima di questa scia di sangue.

Il metodo

Anche le modalità con cui questi omicidi furono perpetuati sono di diverso tipo. Spesso l’UDBA inviava infiltrati nei circoli delle diaspore nel mondo, membri dei servizi segreti che instauravano rapporti professionali o di amicizia con le vittime. Altre volte, si utilizzava una “manodopera” composta da membri della criminalità organizzata, assoldati in cambio di compensi economici: secondo alcune fonti, tra questi vi sarebbe stato anche Željko Ražnatović, tristemente noto con il nome di Arkan per i massacri compiuti nelle guerre degli anni ’90.

Alcune delle esecuzioni, inoltre, non mancano di particolari ancora più tragici: a San Donà di Piave, insieme a Ševo, persero la vita anche la moglie Tatjana, di 26 anni, e la figlia Rose Marie, di soli 9 anni, freddate dallo stesso killer; a Chicago, invece, il responsabile dell’uccisione di Kašiković non risparmiò nemmeno la giovanissima Ivanka, figlia della moglie del giornalista serbo.

Il silenzio

Ad anni di distanza da quei tragici avvenimenti, i passi avanti fatti per fare chiarezza sono stati molto pochi. Per lungo tempo, difatti, i paesi dove questi omicidi sono stati commessi hanno preferito non approfondire i casi: nel contesto della Guerra Fredda, la Jugoslavia godeva di un consolidato credito internazionale e diversi paesi occidentali vedevano di buon occhio il regime di Belgrado. Non è perciò da escludere che i servizi segreti di questi paesi fossero a conoscenza delle operazioni, preferendo chiudere un occhio e scegliendo di non impegnarsi nella ricerca dei responsabili.

A mancare, però, è stata anche la volontà politica dei paesi sorti sulle ceneri della Jugoslavia. Morta la Federazione, molti dei membri dell’UDBA si sono abilmente riciclati nei servizi segreti dei nuovi Stati, mantenendo spesso stretti legami con le élite locali. Emblematico è il caso della Croazia, proprio con riferimento all’omicidio di Đureković. La volontà di un tribunale tedesco di perseguire Zdravko Musac e Josip Perković, due croati ai vertici dell’UDBA all’epoca dei fatti, ha difatti portato ad uno scontro politico tra Berlino e Zagabria. Il governo croato ha ostacolato per anni la richiesta di estradizione proveniente dalla Germania, proteggendo i due. Solo dopo forti pressioni, inclusa la minaccia della Commissione europea di tagliare i fondi di sviluppo per la Croazia, nel 2014 Musac e Perković sono stati arrestati e consegnati alle autorità tedesche. Nel 2018, entrambi sono stati condannati all’ergastolo per aver favorito l’omicidio di Đureković e solo pochi giorni fa, l’11 luglio, Perković è stato trasferito in un carcere croato.

Si è trattato di uno dei pochi processi volti ad accertare le responsabilità dei servizi segreti jugoslavi nelle uccisioni all’estero dei dissidenti del regime. Un piccolo passo, quello del processo sull’omicidio di Đureković, che ci ricorda quanto questa storia drammatica meriti ben più attenzione e volontà di fare chiarezza.

Foto: Nova24TV

Chi è Riccardo Celeghini

Laureato in Relazioni Internazionali presso la facoltà di Scienze Politiche dell'Università Roma Tre, con una tesi sui conflitti etnici e i processi di democratizzazione nei Balcani occidentali. Ha avuto esperienze lavorative in Albania, in Croazia e in Kosovo, dove attualmente vive e lavora. E' nato nel 1989 a Roma. Parla inglese, serbo-croato e albanese.

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