Gli ebrei hanno vissuto in Polonia per circa mille anni: in questo paese hanno definito una parte essenziale non solo della cultura ebraica orientale ma anche della storia polacca. Eppure quella tra polacchi ed ebrei resta una memoria contesa.
Cenni storici
Fuggendo dall’Europa occidentale a causa delle persecuzioni, attraversando una foresta, ad Est, alcuni ebrei sentirono gli uccelli cantare una melodia che sembrava dire “Pol-in”. “Resta qui”, in ebraico. Così si fermarono. Questo racconto proviene dalla “Leggenda della foresta”, con cui è stata narrata l’origine dell’insediamento ebraico nella terra di Mieszko I. “Polin”, resta qui: è anche il nome con cui gli ebrei chiamano la Polonia.
Da quel momento, per più di un millennio, il rapporto tra ebrei e polacchi è stato allo stesso tempo pacifico e violento, una storia di tolleranza e odio, di libertà e persecuzione. Qui gli ebrei hanno potuto far fiorire la loro cultura, vivere in autonomia e lavorare. Qui hanno potuto trasmettere la loro lingua, lo yiddish, di generazione in generazione, aprire scuole, costruire e frequentare le sinagoghe.
E tuttavia, in questa stessa terra, gli ebrei sono stati accusati di aver provocato epidemie e malattie, hanno subito persecuzioni in tempi di crisi, ritrovandosi vittime della violenza dei soldati e della brutalità dei pogrom, sono stati esclusi da numerosi mestieri, costretti, come gli animali nei recinti, a vivere nei ghetti.
L’oblio e la memoria per gli ebrei
«Che cos’era la memoria» scrive Wlodek Goldkorn, «se non una variazione dell’oblio?». Si riferiva al dolore del ricordo all’indomani di Auschwitz, quando «il vuoto del presente» sembrava dover essere riempito da una memoria che non era altro che «rimozione del ricordo: per sfuggire ai sensi di colpa e per darsi una ragione per proseguire la vita in un paese e su una terra altrimenti irriconoscibili».
Quando fu messa fine a quella tragedia indescrivibile che è stata l’Olocausto, dei 3,5 milioni di ebrei che abitavano in Polonia ne rimasero soltanto 300 mila. I sopravvissuti si trovarono di fronte alla scelta di restare o emigrare. Ma come restare, se la loro presenza secolare era stata spazzata via in pochi anni, se non erano rimasti padri né madri né amici?
Alcuni polacchi, durante le deportazioni degli ebrei, avevano occupato le abitazioni dei loro vecchi vicini di casa, si erano impossessati dei beni che ai morti non servivano più. E che non sarebbero stati restituiti neanche quando i deportati non erano niente affatto morti e tornavano indietro, sopravvissuti allo sterminio.
Altri ebrei si convinsero a lasciare la Polonia dopo che la scomparsa di un bambino, poi tornato a casa, provocò un pogrom a Kielce nel 1946. Fu l’ennesimo momento di non ritorno: i polacchi uccisero i loro vicini ebrei. Lo avevano già fatto a Jedwabne cinque anni prima. Di mezzo, la Shoah. Nel 1968 Gomułka “invitò” i pochissimi rimasti ad andare via. Perché allora restare in Polonia? Gli ebrei partirono, portando con sé la loro memoria.
L’oblio e la memoria per i polacchi
La Polonia uscì in macerie dalla guerra. La riva sinistra della sua capitale, Varsavia, fu rasa al suolo in seguito all’insurrezione del 1944. Sulla riva destra, invece, i sovietici assistettero alla distruzione della città prima di sferrare l’attacco finale contro la Wermacht, mettendo poi radici in Polonia.
Durante la guerra il paese aveva subito un’altra spartizione, dopo quelle tra Russia, Prussia e Austria che provocarono la sua sparizione geografica tra il 1772 e il 1918. La lingua e la religione ne impedirono la scomparsa culturale. All’indomani della guerra, in seguito alle ridefinizioni dei confini, alla deportazione delle minoranze nazionali e allo sterminio degli ebrei, il cattolicesimo restò l’unica fede professata in un paese ormai etnicamente omogeneo.
Da questo momento, un polacco sarebbe stato certamente un cattolico. Ora non restava che curare le ferite: la strage di Katyń, i massacri della Volinia, la liquidazione dell’intelligencija, la perdita di Vilnius e di Leopoli e quella di milioni di esseri umani. Bisognava ricostruire il paese, orientandosi tra le nuove coordinate politiche d’Europa.
La politica della storia
La memoria collettiva polacca è una memoria nazionale, fatta di miti e omissioni come tutte le memorie nazionali. Essa è soprattutto la memoria della popolazione polacca e cattolica, dove resta poco spazio per tutti gli altri, tra cui gli ebrei.
Gli studiosi che si occupano di questo tema, come Ireneusz Krzemiński e Jan Tomasz Gross hanno parlato di “rivalità del dolore” e di “intrusione” della tragedia ebraica in quella polacca: niente e nessuno può ridimensionare le sofferenze dei polacchi, morti a milioni durante l’occupazione nazista.
Tale mitologia della storia, basata sul martirio e l’eroismo del popolo polacco, è stata favorita dal partito nazionalista e conservatore PiS. Esso incoraggia, attraverso la sua influenza sull’Instytut Pamięci Narodowej, una visione semplificata e stereotipata del passato che non ammette sfumature e in cui non esistono zone grigie.
Questo atteggiamento ha provocato la diffusione in Polonia di un clima sfavorevole alla ricerca storica. Negli ultimi anni sono state varate (poi emendate) leggi liberticide. Gli storici che hanno pubblicato libri sul comportamento a dir poco controverso assunto da alcuni polacchi durante la guerra sono stati in alcuni casi vittime di campagne denigratorie, di processi in tribunale e addirittura di minacce di morte. Una situazione, questa, che non rende giustizia alla memoria dei tantissimi polacchi che rischiarono la vita per salvare gli ebrei dalle deportazioni.
Perché accade?
Gli studiosi si sono chiesti quale atteggiamento bisognerebbe assumere nei confronti dei drammi collettivi della storia. La risposta va in direzione contraria rispetto a ciò che accade oggi in Polonia (e non solo), dove tragedie che non hanno frontiere chiare vengono nazionalizzate. Dovrebbero, invece, sostengono Levy e Szneider, diventare parte di una memoria universale e cosmopolita, in cui ognuno vi partecipa con i suoi meriti e le sue colpe. Ognuno custode del passato contro ogni politicizzazione della storia.
«Mi chiedi quale sia per me la cosa più importante» ha detto Marek Edelman, membro del Bund e uno degli insorti del ghetto di Varsavia nel 1943. «La più importante di tutte le cose è stare qui, in Polonia, a vegliare sulle tombe del mio popolo. E credo di essere stato un buon guardiano».