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La Russia sarà libera e felice

C’è una legge in Russia o, meglio, un insieme di leggi che impediscono di criticare la guerra. Anzi, impediscono di pronunciarla, la parola guerra. E non si scherza, si rischia di finire per anni in qualche colonia penale, nel vasto nulla dell’immenso spazio russo a contemplare quanto è breve l’orizzonte politico del Cremlino. Si tratta di leggi di guerra concepite da un potere oppressivo quanto pavido. Risalgono a marzo, e hanno avuto effetti importanti sulla società russa. E occorre tenerne conto quando si parla di responsabilità collettiva, spulciando Hanna Arendt e pontificando sulla psicologia collettiva di un popolo che, ancora, ha bisogno di eroi. E uno di questi è Ilya Yashin, quarantenne, della generazione che è diventata adulta col putinismo e l’ha rifiutato. Yashin non è solo un “oppositore” – etichetta abusata e vuota – ma un politico liberale di spicco, deputato a Mosca e alla guida dell’opposizione insieme a gente come Boris Nemtsov, ucciso da-chissà-chi nel 2015.

Un mondo, quello dell’opposizione a Putin, per anni sbertucciato in Europa e definito “residuale” e in fondo preda del narcisismo dei suoi molti “piccoli” leader che piccoli non sono affatto. Anzi, essi hanno rappresentato un’alternativa al regime fino a eroderne il consenso – altrimenti perché ammazzarli, avvelenarli, incarcerarli – e sono stati la voce “della maggioranza silenziosa”. Certo, una maggioranza tra coloro che sono politicizzati, istruiti, borghesi, radicata nelle grandi città. Ma una maggioranza, oggi, allargatasi a quanti in Russia vogliono «vivere pacificamente e civilmente» secondo le parole dello stesso Yashin, pronunciate in aula durante la tradizionale “ultima parola” in cui all’imputato è concesso difendersi – una pratica prevista dall’ordinamento russo che ha precedenti illustri come, ad esempio, la memoria difensiva di Fëdor Dostoevskij – e che Yashin ha usato per ricordare a tutti che la Russia può salvarsi solo se depone le armi: «Il nostro esercito non è stato accolto con fiori. Siamo chiamati giustizieri e occupanti».

Yashin sarà condannato, com’è ovvio. La sua colpa è quella di aver violato le leggi sulla censura che comminano sanzioni amministrative (n. 31-FZ,  n. 62-FZ) e punizioni penali (n. 32-FZ, n. 63-FZ) per la diffusione di “informazioni inaffidabili” sulle forze armate russe e proibiscono di “screditare” l’esercito.  Così, dopo una diretta YouTube durante la quale ha parlato della strage di Bucha e ha definito “guerra” l’operazione speciale del Cremlino, è stato arrestato. Era il 27 giugno 2022. Ma se le autorità hanno potuto sbatterlo in prigione è perché lui non se n’è andato dalla Russia, come invece hanno fatto altri tra politici, intellettuali, artisti e militanti dell’opposizione. Non se n’è andato perché. dal suo punto di vista, il peggio era già avvenuto: «Uno dei miei amici, Boris Nemtsov, è stato ucciso. Un altro, Alexey Navalny, è stato avvelenato e mandato in prigione. Andrey Pivovarov è dietro le sbarre da un anno. Gorinov è dietro le sbarre: deve dormire su un pavimento di cemento in una cella affollata». Poco prima di lui, un altro esponente dell’opposizione, Vladimir Kara-Murza, è stato arrestato con le stesse accuse per aver denunciato l’invasione militare in un discorso pubblico. Avevano già provato ad avvelenarlo due volte, adesso rischia vent’anni di carcere.

Nel discorso di Ilya Yashin – tradotto da Giovanni Savino – c’è la forza morale di un paese intero che, come ogni paese, avrà pure i suoi accoliti, manutengoli, ignavi, ma conserva etica e bellezza. Rivolgendosi direttamente a Vladimir Putin, l’imputato Yashin dichiara: «Vladimir Vladimirovič […] lei è in guerra non solo con gli ucraini, ma anche con i suoi compatrioti. Manda centinaia di migliaia di russi nell’inferno della battaglia, molti non torneranno mai più a casa, essendosi trasformati in polvere. Molti rimarranno paralizzati e impazziranno per ciò che hanno visto e vissuto. […] Sta privando i russi della loro casa. Centinaia di migliaia di nostri concittadini hanno lasciato la loro patria perché non vogliono uccidere ed essere uccisi. La gente sta scappando da lei, signor presidente. Non se ne accorge?».

Ecco, quando guardiamo alla Russia, guardiamola tutta. E quando l’Occidente vagheggia di regime change e sogna di abbattere l’autocrate del Cremlino, è a questi uomini che deve guardare per il futuro e non, come già avvenuto altrove e in Russia, a qualche oligarca in cerca di un salvagente per i suoi capitali. Perché questa guerra è tante cose: una guerra d’aggressione, una sfida tra potenze, una tumescenza del capitalismo, un’occasione per vincere un secolare nemico. Ma vincere non serve senza pace e senza giustizia. E questo non vale solo per l’Ucraina, ma anche per la Russia. Il cappio di una Norimberga viene agitato in faccia a un popolo intero, definito ipocritamente terrorista – come se gli intelligentissimi ordigni atlantici non avessero centrato scuole, ospedali e civili da Saigon a Baghdad – dimenticando che la resistenza è anche lungo le strade di Mosca, nei tribunali, nelle coscienze di persone che il bisturi della nostra condanna generalizzata non è in grado di penetrare: «Credetemi, la Russia sarà libera e felice». Vogliamo crederti, Ilya.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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