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Cos’è stata Stalingrado?

Cos’è stata Stalingrado? Il nome della città – che oggi si chiama Volgograd – resta impresso nella memoria collettiva come un evento simbolico, una cesura nella storia, uno scontro tra la giustizia e il male assoluto, un mito colmo di eroi e denso di significati salvifici. Libri, film e canzoni celebrano – spesso con enfasi retorica – quella decisiva battaglia riducendola, talvolta, a un duello tra generali – Paulus contro Čujkov – e dimenticando soldati e civili. Memorie sepolte tra le macerie.

Il 10 gennaio 1943 l’Armata Rossa sferrava l’ultimo attacco alla “Fortezza Stalingrado”, come veniva chiamata la sacca in cui gli assediati tedeschi restarono asserragliati, con l’ordine di creparci in quella ‘fortezza’. Prese così il via l’operazione Anello. L’offensiva sovietica durò venti giorni in cui i soldati di Čujkov schiacciarono la disperata resistenza germanica mettendo fine, il 2 febbraio, alla battaglia e conquistando la città. Una vittoria destinata a ribaltare le sorti del conflitto mondiale. Una vittoria preceduta – nel novembre 1942 – dall’accerchiamento delle truppe tedesche che trasformò gli assedianti in assediati. C’è una data, il 23 novembre del 1942, da cui tutto discende. Il giorno in cui le corazzate sovietiche provenienti da nord e da sud si ricongiunsero nella località di Sovetskij, e furono fiumi di vodka. La tigre era stata presa per la coda. Ma fu dentro la sacca che, assediato, iniziò il cambiamento.

Non cambiò solo l’umore dei soldati, la qualità del caffè, la quantità di cibo, il colore delle facce denutrite e stanche. Non cambiò solo la convinzione nella politica del Führer. Cambiò lo spirito. Quei soldati abbandonati sul Volga divennero l’avanguardia di un rinnovamento storico per il popolo tedesco e, probabilmente, per tutta quell’Europa che cadde ammaliata dal disumano potere del nazi-fascismo. “Nei tormenti della fame, nelle paure della notte, nella percezione di una catastrofe imminente era iniziato – lento, graduale – il riscatto della libertà nell’animo della gente, il ritorno a valori umani, la vittoria della vita sulla non vita”. Con queste parole Vasilij Grossman, nel romanzo Vita e Destino – forse il più grandioso romanzo russo di sempre – descrive il mutamento nell’animo dei soldati tedeschi come la scintilla di una ritrovata umanità. Strette nel gelo feroce, affacciate sull’orrido del disastro, in bilico su una malvagità abissale, le prime ore dell’assedio per i nazisti rinchiusi a Stalingrado furono le prime ore del ritorno alla vita. Una vita in cui comprendere che nessun lager, nessuna esclusione, è a fin di bene. Anche per quei soldati imprigionati nel glaciale inverno sovietico.

Stalingrado – dice Grossman – è stata la capitale del mondo, un mondo in guerra. Tra le macerie delle enormi fabbriche, diventate nidi per mitragliatrici, nasceva però la città nuova. Una città del sole, un’utopia di libertà. Stalingrado è stata la scaturigine del riscatto, della resistenza, il bicchiere alzato nelle fabbriche d’Europa, il coraggio dello sciopero. Stalingrado è stata al centro di passioni e timori di milioni di persone, dal vecchio continente a quelli nuovissimi. Questo dobbiamo comprenderlo se vogliamo uscire dalle retoriche, dal numero dei morti, dai piani di battaglia, dalle pagine a volte troppo sterili dei libri di storia. Dobbiamo comprendere che Stalingrado è stata ispirazione, incubo e sogno, origine e macerie di un mondo nuovo. Macerie, va detto. Poiché lungi dall’equiparare ideologie tutt’affatto diverse, è vero che quel mondo, appena nato, venne presto soffocato.

Coperta dalla neve, nel silenzio della battaglia trascorsa, dopo le sbronze e i concerti, Stalingrado verrà ricostruita da migliaia di schiavi. La bestiale numerazione degli uomini, la violenza della repressione, farà della città il teatro in cui erigere un nuovo totalitarismo. L’omologazione forzata del nuovo regime stalinista, la tirannide eretta dal cemento, ci impedisce oggi di chiamare Stalingrado come un nome di libertà. Ma lo è stata, forse per poco, il tempo di un incendio, un fuoco bruciato in fretta. Di quell’incendio di libertà divampato da Stalingrado conserviamo la scintilla e dimentichiamo le ceneri. Ricordiamoci cos’è stata Stalingrado.

immagine Pixabay License

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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