No, quello di Djokovic non è l’ennesimo martirio serbo

“Lo stanno torturando come Gesù, lo stanno crocifiggendo”, così alla vigilia del Natale ortodosso diceva Srdjan Djokovic, padre del campione di tennis in riferimento al trattamento subito dal figlio da parte delle autorità australiane. L’affaire Djokovic ha avuto una immediata eco internazionale che in Serbia si è rapidamente declinata su toni e accenti nazionali, e nazionalistici, facendo di Nole l’ennesimo martire di un popolo i cui leader troppo spesso ricorrono a questa sindrome di accerchiamento.

La retorica impiegata dal padre di Djokovic riprende molti cliché che dagli anni Novanta hanno fatto la fortuna della propaganda nazionalista serba. In primis quello secondo cui l’Occidente – in questo caso personificato dalle autorità dell’Australia – odia la Serbia. Già, perché nelle parole del padre del tennista, ma anche in quelle del presidente serbo Aleksandar Vucic, difendere Nole significa difendere il paese. Se, inoltre, il destino ha voluto che l’intera vicenda avvenisse a ridosso del Natale, la “nazionalizzazione” del caso Djokovic è servita su un piatto d’argento.

“Djokovic a Natale ha dormito con gli scarafaggi e i migranti”, ha titolato uno dei più venduti tabloid filogovernativi. Un titolo che in sé racchiude alcuni elementi della retorica nazionalista granserba. Innanzitutto, l’ascendente razzista del messaggio veicolato che mette sullo stesso livello rifugiati e insetti infestanti. Inoltre, il presunto diritto di superiorità – tipico delle ideologie nazionaliste – del campione serbo rispetto ai migranti. La politica australiana sull’immigrazione è sì estremamente restrittiva ma è quanto da anni chiedono, come trattamento minimo, operatori ed attivisti dei diritti umani e cioè che prima di deportare o respingere i rifugiati, come succede alle porte dell’UE lungo la rotta balcanica, i tribunali nazionali ne esaminino le richieste. La differenza è che nel caso di Djokovic il tribunale si è espresso in pochi giorni, mentre per semplici afghani o iracheni la procedura dura diversi anni, tutti trascorsi nell’hotel che ospita i suddetti scarafaggi. Quella contro Djokovic più che una violazione di diritti sembra piuttosto la cessazione di un privilegio, quello delle persone più abbienti di comportarsi come vogliono, a discapito di regole e disposizioni sanitarie.

Infine, la forza del titolo del tabloid di regime sta nell’immagine di martire che dà del tennista. Ecco quindi che, seguendo il tracciato della retorica vittimistica, la sofferenza di Nole, che passa il Natale da rinchiuso, è la stessa delle vittime dei bombardamenti NATO sulla Serbia, degli internati nel lager di Jasenovac durante la Seconda guerra mondiale, o del sacrificio del principe Lazar nella battaglia del Kosovo, solo per citare i principali bastioni della sovrastruttura vittimistica del nazionalismo serbo. La sindrome da accerchiamento patita da Djokovic, inoltre, si è inserita lungo le faglie che al momento dividono le società tra pro-vax e no-vax, con quest’ultimi che erigono la libera scelta di Nole a non vaccinarsi a un modello da seguire contro le interferenze e gli obblighi delle autorità.

La realtà è abbastanza diversa. Innanzitutto, Djokovic sapeva bene a cosa andava incontro: per entrare in Australia bisogna essere vaccinati, fornire prove false sul contagio da covid non può che peggiorare la situazione. E poi, sulla questione nazionale, Nole è uno sportivo molto distante da certe cose. Da residente a Montecarlo, si reca in Serbia con la stessa assiduità del resto della diaspora serba: cioè per le vacanze.

Inoltre, non c’è un filo diretto tra le sue azioni e il messaggio che le autorità serbe vorrebbero trasmettere. Djokovic risulta essere piuttosto una marionetta nelle mani del governo di Belgrado, che se ne serve a suo uso e consumo sfruttando la popolarità del campione. Lo dimostra il fatto che solo poche settimane fa Djokovic appoggiò pubblicamente le richieste delle proteste ecologiche che da tempo chiedono al governo serbo di stralciare i permessi di escavazione del litio concessi alla multinazionale Rio Tinto. Dopo diversi weekend di barricate stradali, il governo – per la prima volta da quando Vucic è al potere – ha fatto un passo indietro. Un’eventualità tanto rara da lasciare il sospetto che l’intercessione via Instagram di Nole abbia contribuito a mettere in cattiva luce le autorità di Belgrado.

Sulla stampa serba il tribunale che lunedì ha infine “liberato” Djokovic ha quindi assunto le sembianze della Corte dell’Aja che giudica i criminali delle guerre degli anni Novanta. Solo che questa volta, i serbi hanno vinto. Il seguito della storia dipenderà dalla cronaca dei prossimi giorni e qualora il campione dovesse alla fine giocare e vincere il decimo Australian Open il trofeo avrebbe, stando alle letture popolari a Belgrado, l’inevitabile retrogusto della rivincita nazionale.

Foto: Wikimedia commons

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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Un commento

  1. Christian Eccher

    Ottimo articolo. La Serbia è di nuovo in una tempesta ormonale nazionalista. Anche i giornali di opposizione difendono Djokovic. Il Paese è allo sbando, l’istruzione e la scuola sono praticamente inesistenti, gli ospedali al collasso, ovunque spuntano murales che ritraggono criminali di guerra. L’importante, però, è che giochi Djokovic…

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