Leggendo una lettera di un partigiano condannato a morte

Una cosa che forse ha senso fare, in un giorno come questo, è tornare alle parole di chi ha combattuto cercando, per quanto possibile, di conoscerli come uomini, grattando la superficie dorata del martirio, evitando i toni celebrativi, indagandone le ragioni psicologiche, ideali, che li hanno spinti alla lotta oppure, più semplicemente, per capire che quegli eroi ci somigliano, fratelli. E allora potremmo, chissà, giungere al cuore della loro eredità spirituale e umana: loro erano come noi, e noi siamo come loro. Non eroi, inimitabili e irraggiungibili, ma persone che anche noi abbiamo la possibilità di essere, quotidianamente, scegliendo di fare ciò che è giusto. Così, questa mattina, ho aperto una pagina a caso del volume che raccoglie le lettere dei partigiani caduti, e mi sono trovato davanti un uomo poco più vecchio di me, di cui so poco, e lo interrogo tra le righe, alle svolte dei marciapiedi della mia città.

Torino antifascista

In un’Italia occupata, schiacciata sotto il tallone dell’invasore tedesco e dei fascisti italiani, loro asserviti, c’è chi ha resistito. Ed è morto. Torino è la prima città italiana dove nasce un Comitato di liberazione nazionale (CLN), vero e proprio governo di guerra con un’organizzazione regionale che comprende uno stato maggiore, il Comitato militare regionale piemontese. Il 31 marzo 1944 questo comitato sta tenendo una riunione nella sagrestia della chiesa di San Giovanni, a Torino, quando all’improvviso irrompono i fascisti. Il processo che segue a pochi giorni di distanza è esso stesso un episodio della Resistenza italiana. I maggiori imputati non si difendono. Accusano, danno ragione delle loro azioni, ne affermano il valore morale e civico. Sei giorni dopo la cattura, e due dopo la sentenza emessa da un tribunale di parte, asservito ai tedeschi, nove esponenti del comitato – operai, intellettuali e militari – vengono fucilati al poligono del Martinetto, alla periferia di Torino.

La lettera di Giuseppe Perotti

Giuseppe Perotti proveniva dal genio militare, quando viene fucilato ha 48 anni, è vecchio rispetto ai molti partigiani che hanno preso le armi. Il 3 aprile scrive una lettera alla moglie, una lettera senza retorica, senza quell’enfasi che spesso si trova nei più giovani caduti, ridondanti di ingenua e ardimentosa idealità, che richiama al senso della lotta e alla speranza nel futuro che li ha condotti alla scelta resistenziale. Al contrario, la lettera di Perotti è calma, di una semplicità profonda, lucida, in cui la preoccupazione per il futuro economico della sua famiglia lo spinge persino a considerare l’eventualità che la moglie possa risposarsi: “Non io sono la vittima ma voi che restate, voi che dovete sopportare il tremendo retaggio di una vita da affrontare senza quel piccolo aiuto che ho cercato di darvi. Io muoio, te l’ho già detto, tranquillo. Prima di lasciarti devo ripeterti che sei stata per me la compagna più dolce, affettuosa, buona, intelligente che io avessi potuto sognare: mi illudo di aver sempre cercato di ricambiarti i sentimenti che suscitavi in me. La vita per te sarà dura: se le vicende vorranno che tu possa trovate un altro aiuto accettalo per te e per i nostri figli“.

Gli argini dell’amore

Si tratta di una lettera intima, in cui centrale è il pensiero dei figli: “Anche ieri sera, come sempre, non ho saputo tenermeli vicini, non ho saputo godermeli, ed ho poi pianto disperatamente sul mio errore“. Un pensiero che, comune forse a molti genitori, assume qui il senso dell’irrimediabile. Era l’ultima volta che li vedeva, ma lo stesso non è riuscito a stringerli a sé, ad abbracciarli, come avrebbe voluto. Erano i tempi in cui i figli si amavano senza mostrare i propri sentimenti.  In buon piemontese, alla figlia da poco diventata madre, la mia bisnonna diceva: “se vuoi baciarli, i bambini, baciali la notte” quando non se ne accorgono. Chissà se anche Perotti li baciava la notte.

Il bilancio di una vita

Non voglio fare il bilancio della mia vita; si chiude in modo così tragico che non so come classificarla. Debbo giudicare che sono sempre stato un fallito e che l’ultimo atto ha chiuso degnamente il ciclo. Ma d’altra parte ho sempre cercato e ne ho piena coscienza, di fare del mio meglio senza fare male a nessuno; se sono fallito nelle risultanze non è colpa delle intenzioni ma dei mezzi che hanno mancato allo scopo“. Un fallito dunque, ma non uno sconfitto. Una severità che non indugia nel compatimento. Il fallire è un esito, ma Perotti ha tentato – questo sembra dirci –  di lottare, di amare, di essere la persona che riteneva giusto essere. Ha perso, ma “bisogna accettarlo […] io almeno ho combattuto”. 

Il testamento spirituale

L’unico testamento spirituale che lascio a te ed ai miei figli adorati è di affrontare con serena sicurezza le avversità della vita adoperandosi in modo perché la propria coscienza possa sempre dire che ha fatto tutto possibile. Se il risultato sarà buono compiacersene con modestia; se sarà cattivo trovare sempre la forza di riprendere con buona lena senza lasciarsi abbattere e senza chiamare in causa il destino“. Essere umili, andare avanti, poche parole, senza lagnarsi tanto. Sembra di sentire i vecchi delle mie campagne. Anche loro saranno morti ormai, ma rovesciati in noi come padri nei figli. Anche Perotti, dunque, ci è padre?

Sognare in viaggio

Prendo congedo da voi come spero comprenderete attraverso le mie pagine mal scritte, anche perché la luce è molto scarsa, con serena tranquillità. Non ho l’impressione di andarmene per sempre, ma di allontanarmi come ho sempre fatto, di sognare in viaggio voi e la mia casa e di pensare al mio ritorno in famiglia. Sono certo che questo senso di serena fiducia mi accompagnerà fino all’ultimo momento“. E poi i saluti, come si saluta quando si muore?

Felici e contenti

A tutti gli auguri che un cuore di padre affettuoso ed amante può formare per immaginarvi felici e contenti“. Come un lieto fine, perché ci sarà un lieto fine, ci saranno la libertà e la pace. Ne sembra convinto, non è una favola certo, nelle favole i buoni non muoiono mai, ma lo saremo “felici e contenti”. Dobbiamo esserlo, e conservare quello che ci è stato dato al prezzo di tanto dolore. Infine, voltata la pagina, le ultime due righe (le ultime mai scritte da quest’uomo) e una firma. Ma una firma che non è nome, ma sostanza d’uomo, riassunto di una vita e senso stesso della vita. Una vita che si è sacrificata, in fondo, proprio per quello: per il futuro, per l’avvenire dei figli, noi qui. “Ed io sono certo che vivrete felici e contenti e continuerete sempre a ricordarvi del vostro

Papà

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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