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KAZAKHSTAN: Cento anni fa la carestia che cambiò il paese

Cento anni fa esatti, era il 1921, il Kazakhstan si avviò ad affrontare il decennio più drammatico della sua storia, un periodo al termine del quale nulla sarebbe più stato come prima. Fiaccato dalle conseguenze della guerra civile russa e dal susseguirsi di anni siccitosi alternatisi in rapida successione, il Kazakhstan dovette affrontare un periodo di carestia (aqtaban shŭbïrïndï) che provocò la morte di quasi il 20% della popolazione, almeno 400 mila persone.

Ma se le ragioni di quella tragedia furono per larga parte naturali, quelle che determinarono la carestia che sconvolse il paese tra il 1930 e il 1933 furono, per larga parte, il frutto di precise scelte politiche; scelte che Iosif Stalin teorizzò nel programma di collettivizzazione delle terre e che prese il via nel 1928 con lo scopo di sostenere lo sforzo di industrializzazione dell’Unione Sovietica, specie quella dell’industria pesante.

Il piano prevedeva che i pastori e le loro mandrie fossero smistati in fattorie collettive sotto il controllo dello stato con lo scopo di liberare ampi tratti di terra che sarebbero stati, così, destinati alla coltivazione di grano. Un drastico cambio culturale per il Kazakhstan da sempre fondato sulla pratica del nomadismo pastorale, pratica che di fatto caratterizzava quelle popolazioni assai di più di qualsiasi senso d’appartenenza nazionale. La collettivizzazione forzata prevedeva che i proventi dei raccolti di grano e delle carni fossero utilizzati per fornire cibo alle città e che solo l’eccedenza della quota preventivata rimanesse nelle disponibilità di agricoltori e allevatori. Un piano portato avanti, tra resistenze e rivolte popolari, dal segretario locale del partito, Filipp Goloshchyokin, con uno zelo tale da far definire le conseguenze della carestia che gettò l’intero paese nella disperazione all’inizio degli anni ’30 come genocidio Goloshchyokin.

L’ennesima siccità e l’insostenibilità del piano di collettivizzazione – il nomadismo pastorale era, per certi versi, un millenario adattamento alle condizioni ambientali della steppa e alla scarsità d’acqua – provocarono, infatti, una crisi di approvvigionamento alimentare senza precedenti (si stima che dai 40 milioni di capi bestiame si passò a poco più di 4 milioni) causando la morte di almeno un milione e mezzo di persone, oltre un terzo dei kazaki, il 70% dei bambini. Un altro milione di persone tentò di rifugiarsi nei territori confinanti, specie in Cina, con esodi che le cronache del tempo e le poche testimonianze disponibili raccontano con toni epocali, tra morti sui cigli delle strade e comprovati atti di cannibalismo. Un’ecatombe. Molti di quei migranti non fecero più ritorno e, tutt’oggi, i loro discendenti risiedono nei paesi d’arrivo: Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan Uzbekistan e, naturalmente, Russia.

Sebbene meno conosciuta della contestuale carestia che afflisse l’Ucraina, nota come Holodomor, che provocò almeno tre milioni e mezzo di morti, le conseguenze sociali e demografiche della carestia kazaka sono state, per certi versi, ancora più profonde. La collettivizzazione e l’industrializzazione catalizzarono l’irreversibile processo di modifica culturale della società kazaka, passata da un nomadismo pastorale, visto come pratica identitaria, a una società sedentaria e stanziale. La sedentarizzazione è, quindi, alternativa al nomadismo, ritenuta una pratica economicamente arcaica e contraria alla modernità del socialismo. Per alcuni studiosi questo passaggio fu cruciale per la creazione di una vera e propria identità nazionale kazaka, prima sconosciuta, e per il riconoscimento del Kazakhstan come stato con un suo territorio chiaramente delimitato assimilato nel sistema economico sovietico.

Dal punto di vista demografico la popolazione kazaka subì una diminuzione tanto drammatica da indurre le autorità sovietiche a secretare i risultati del censimento del 1937: i kazaki, inoltre, si ritrovarono ad essere un gruppo etnico minoritario nel loro stesso paese, soppiantato dai russi che già dall’inizio del secolo (ancora in epoca zarista) avevano iniziato a insediarsi in Kazakhstan – un effetto così radicale da persistere fino agli anni ’90 allorquando la proporzione è tornata nuovamente a invertirsi.

Parlare della carestia in Kazakhstan ha significato fare “propaganda antisovietica” fino all’avvento di Michail Gorbačëv e della sua perestroika ma ancora oggi il giudizio degli storici (e dei due paesi coinvolti, Kazakhstan e Russia) si divide tra chi considera la carestia come un deliberato atto genocidario perpetrato da Stalin ai danni dei kazaki (e degli ucraini) e chi, invece, la considera come una conseguenza collaterale, un errore di valutazione, degli effetti della collettivizzazione, contestualizzandola nelle dinamiche di una vera e propria lotta di classe tra i contadini proprietari terrieri – i cosiddetti kulaki – e i principi fondanti del comunismo e la sua visione della proprietà privata. I kulaki dovevano essere eliminati come classe e subirono, infatti, deportazioni ed esecuzioni.

La carestia finì nel 1934 con un buon raccolto favorito dalle benevole condizioni climatiche ma il Kazakhstan era, ormai, diventato qualcosa d’altro e di diverso.

Per approfondire:

  • Sarah Cameron, The Hungry Steppe: Famine, Violence, and the Making of Soviet Kazakhstan, Cornell University Press, 2018.
  • Niccolò Pianciola, Stalinismo di frontiera. Colonizzazione agricola, sterminio dei nomadi e costruzione statale in Asia centrale, Viella, 2009.

Foto: Time Literary Supplement

Chi è Pietro Aleotti

Milanese per caso, errabondo per natura, è attualmente basato in Kazakhstan. Svariati articoli su temi ambientali, pubblicati in tutto il mondo. Collabora con East Journal da Ottobre 2018 per la redazione Balcani ma di Balcani ha scritto anche per Limes, l’Espresso e Left. E’ anche autore per il teatro: il suo monologo “Bosnia e il rinoceronte di pezza” ha vinto il premio l’Edizione 2018 ed è arrivato secondo alla XVI edizione del Premio Letterario Internazionale Lago Gerundo. Nel 2019 il suo racconto "La colazione di Alima" è stato finalista e menzione speciale al "Premio Internazionale Quasimodo". Nel 2021 il racconto "Resta, Alima - il racconto di un anno" è stato menzione di merito al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

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