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“Fiabe cosmologiche ungheresi”: una nuova raccolta in italiano

Alla fine dell’Ottocento, tra il 1894 e il 1896, in occasione del cosiddetto Millenium, la celebrazione dei mille anni dall’arrivo della popolazione magiara nel bacino dei Carpazi, Elek Benedek (1859-1929), giornalista e scrittore originario della Transilvania (Bățani, oggi Romania), decise di mettersi all’opera e realizzare quella che riconosceva essere una vera e propria “missione patriottica”: raccogliere le fiabe ungheresi, prodotto di un popolo ai suoi occhi particolarmente “affabulatore” — soprattutto nella sua zona natia, quel Székelyföld che dopo il primo conflitto mondiale e, soprattutto, il Trattato del Trianon si tramutò in una terra irredenta su cui ancora oggi la politica ungherese intesse diffusi discorsi retorici. 

Quattordici di questi brevi testi popolari sono ora disponibili in italiano (con testo a fronte e un prezioso apparato di note), grazie alla traduzione di Elisa Zanchetta, in C’era una volta o forse non c’era… Fiabe cosmologiche ungheresi (Vocifuoriscena, 2020). Elek Benedek le raccolse in cinque volumi nel corso di attente spedizioni etnografiche nei territori magiari, coadiuvato da altri letterati che comprendevano al tempo, sulla spinta di un tardo sentimento romantico che aveva catturato le diverse tradizioni culturali europee (dai Grimm al russo Afanas’ev), l’importanza fondativa dell’apparato cosmologico e favolistico per la costruzione dell’identità nazionale. Non sarà allora un caso che Benedek, commentando la sua opera e soffermandosi sulle (naturali, aggiungeremo noi) interferenze culturali con le tradizioni di altre popoli, sottolinei in ogni caso come l’autorialità collaborativa ungherese si sia premurata di magiarizzare i contenuti anche quando altrui:

“In questo libro ci sono molte fiabe che gli studiosi sostengono essere di origine straniera: e come il popolo magiaro ha effuso la sua anima, lo straniero è diventato ungherese sulla bocca del narratore di fiabe!” (p. 353).

Come sottolinea Elisa Zanchetta nel saggio introduttivo all’opera, il lettore infatti potrà notare delle convergenze tra alcuni soggetti, motivi, espressioni contenuti nelle fiabe ungheresi e altre tradizioni popolari, in particolare quelle altaiche, siberiane, caucasiche, slave. Così ritroviamo in parte nel mostro serpentino e policefalo dello sárkány una variante dello zmej russo, nella “vecchia dal naso di ferro” una sorta di baba jagà e anche il castello che ruota su una zampa di uccello non può che richiamare alla memoria la capanna su zampa di gallina dello stesso personaggio slavo.

 La curatrice e autrice del volume tratteggia in apertura il cosmo magiaro così come emerge dal nucleo di fiabe raccolto da Benedek: si ha un mondo tripartito tra superiore, intermedio e inferiore, congiunto talvolta da un albero mitico, cosmico, spesso un ciliegio o una betulla; la terra si trova circondata da un abisso acqueo. Per quanto riguarda l’uomo che in questo cosmo si muove, egli può conoscere più morti a seconda dell’anima interessata da tale evento: vi è infatti nella tradizione una scissione tra un’“anima-respiro” e un’“anima libera”.

Come ogni fiaba che si rispetti, anche quella ungherese si connota per una certa formularità e iterazione di espressioni, simboli e motivi (tra tutti emerge l’onnipresente numero sette), alcune delle quali piuttosto originali: la più consueta dichiarazione d’amore tra gli amanti prevede che “solo la vanga e la zappa” verranno un giorno a separarli. Gli eroi partono in genere da una situazione di povertà, gli animali (non di rado parlanti) si fanno aiutanti, non così le figure femminili, spesso novelle “Eva” incapaci di resistere alle tentazioni o, al contrario, antagoniste  profondamente maligne che, nel loro esigere rispetto, potrebbero, scrive Zanchetta, rimandare alle consuetudini di una “primitiva società matriarcale” (p. 17). Nell’impresa, in ogni caso, ci si butta sempre perché “la vita è una” e così il lieto fine, con tanto di ricompensa, è assicurato: e perché no, viene voglia di incontrare anche noi sulla strada, prima o poi, un comodo “mulinetto macinatutto”.

Immagine: wikipedia.org

Chi è Martina Napolitano

Dottoressa di ricerca in Slavistica presso l'Università di Udine, è direttrice editoriale di East Journal e scrive principalmente di Russia.

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