Krleža

Miroslav Krleza: la violenza della storia nelle “Ballate di Petrica Kerempuh”

di Alessandro Balzaretti

Le ballate di Petrica Kerempuh di Miroslav Krleža, pubblicate nel 1936 (Einaudi, 2007, traduzione di Silvio Ferrari, con introduzione di Predrag Matvejević; ne avevamo parlato anche qui), pochi anni prima che lo scrittore croato venisse allontanato dal Partito comunista di Tito, rappresentano senza dubbio il tentativo sperimentale di creare una lingua ibrida, popolare e letteraria al tempo stesso, barocca e grottesca. Ma se si considera la più importante opera poetica di Krleža soltanto nel solco dei modelli a cui si è ispirato, esclusivamente nel suo aspetto letterario, si dimentica il vero significato delle Ballate, quello che hanno da dire della storia, dei popoli e dell’autore: il motivo per cui il leninista Krleža è stato allontanato dal partito, poi riabilitato, infine dimenticato e poi ancora riscoperto. Ma proseguiamo con ordine.

Petrica Kerempuh è la voce dell’autore, un chierico vagante, scapestrato e irriverente, che racconta con ironia la storia della terra di Zagreb (la regione di Zagabria) dal Cinquecento all’Ottocento. Ma l’intervallo in cui si dipana la storia degli uomini è puramente illusorio, perché in questi secoli non succede nulla che non sia la stessa storia: fra assedi e devastazioni di eserciti stranieri, persecuzioni degli inquisitori, vessazioni dei feudatari, i più poveri perdono sempre la vita e la dignità. Sono loro la carne data in pasto ai signori di ogni luogo e ogni epoca, la carne che ingrassa i forzieri dei feudatari, la carne devastata dalla bruttezza e dalla piaghe: per questo il tema del cibo attraversa come un magma tutte le ballate, il suo eccesso e la sua mancanza costituiscono il movimento, il ritmo dei versi. I contadini sono affamati e sognano pranzi pantagruelici, mentre i più ricchi godono del cibo sia sulla terra che in cielo. Perché nella visione pessimista di Petrica Kerempuh non è vero che gli ultimi diventeranno primi nel regno dei cieli, ma l’ingiusta assurdità della storia prosegue anche dove la storia finisce. Nella poesia Keglovichiana il ricco conte Keglović viene accolto in paradiso con una parata trionfale, riverito dai santi e dagli angeli.

Il riferimento delle ballate è la rivolta del 1514, una delle più grandi rivolte contadine dell’Europa orientale, durante la quale settantamila contadini vennero perseguitati e torturati, mentre il loro ispiratore György Dózsa veniva ucciso come un martire, incoronato sadicamente di una corona regale. Questa è la lotta di classe. E in questa lotta cambiano gli aguzzini, veneziani, ungheresi, austriaci, mentre gli oppressi rimangono sempre gli stessi.

Miroslav Krleža era marxista leninista, personalità irriverente e intellettuale libero, per questo osteggiato anche dai compagni di partito. Fu proprio Tito, sotto le pressioni del partito comunista, ad allontanarlo nel 1939; poco tempo dopo Krleža si rifiutò di unirsi ai partigiani, forse presentendo gli orrori di cui si sarebbero macchiati contro gli ustascia croati, come il massacro di Bleiburg.

Eppure Tito apprezzò personalmente Krleža e, dopo la guerra, tentò di riavvicinarlo al progetto politico della nuova Repubblica jugoslava. Le ambizioni che Tito aveva per l’amico non erano certo prive di una precisa volontà politica: Krleža era l’uomo giusto per il tempo giusto, la sua attenzione per la storia jugoslava e la sua opposizione all’avanzata del realismo sovietico in letteratura e nelle arti avrebbero potuto contribuire ad allontanare la Repubblica jugoslava dall’influenza di Mosca. E poi l’apprezzamento personale di Tito per l’amico intellettuale poteva spiegarsi come una forma di compiacenza, la stessa compiacenza con cui i principi del Rinascimento accoglievano alla loro corte artisti e studiosi: il principe ostenta il potere anche tollerando chi lo contesta, si maschera per amico della libertà. Una libertà che il potente teme, ma che soprattutto invidia.

Forse Krleža, l’uomo che aveva studiato e sfidato il potere, si è lasciato ingannare da quegli stessi meccanismi che aveva smascherato. Per questo, crollato il regime di Tito, la nuova cultura croata ha voluto inizialmente dimenticarlo. Si è paragonata la sua biografia con quella di Brecht, che in Madre coraggio e i suoi figli aveva rappresentato la storia trascurata dei contadini e degli uomini comuni durante la Guerra dei trent’anni. Eppure lo stesso Brecht, quando nel 1953 il regime della DDR stronca nel sangue la rivolta degli operai, non esprime a gran voce il suo dissenso e la sua indignazione. Il silenzio degli intellettuali, soprattutto di quelli che avevano avuto il coraggio di opporsi alla violenza della storia, parla e ferisce. Di fronte alla fallibilità degli uomini rimane la voce ferma ed eterna della letteratura, la voce degli irriverenti, la voce di Petrica Kerempuh.

Foto: red-sparrow.net

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