masnada delle aquile

CULTURA: “La masnada delle aquile”, l’immigrazione minorile kosovara si racconta

Esce in questi giorni per Infinito edizioni La masnada delle aquile, un reportage narrativo di Riccardo Roschetti, giovane ricercatore friulano e insegnante di italiano lingua seconda che da tempo si occupa di fenomeni migratori di minori lungo i Balcani.

Il volume è dedicato proprio alla realtà dell’immigrazione minorile kosovara nell’area triestina: si tratta di un racconto fluido e per nulla banale che si inserisce in maniera singolare e innovativa nel panorama della letteratura sul tema. Non si tratta infatti di un report di studio, né della classica narrazione dell’Altro dal punto di vista – per quanto aperto e attento – della voce dominante a livello sociale. Qui il lettore viene piuttosto trasportato lungo un discorso, una riflessione pronunciata per intero, dall’inizio alla fine, da uno dei protagonisti, un adolescente kosovaro accolto in una delle strutture preposte presso il capoluogo friulano.

Roschetti si è infatti votato alla registrazione della voce dei ragazzi con cui per diverso tempo si è ritrovato a lavorare, mescolandoli ne La masnada delle aquile in un unico personaggio fittizio ma non per questo meno realistico (Erion), che le raccoglie tutte, “somma di molteplici voci individuali, tutte molto simili ma altrettanto significative”.

È un libro scritto con una “violenta onestà”, come auto-commenta l’autore nell’Epilogo con estrema umiltà intellettuale, riconoscendo in primo luogo la difficoltà emotiva di affrontare la scrittura di un libro che raccoglie storie personali da lui ascoltate in prima persona. Sono storie tanto sottaciute nella trama sociale dell’Italia contemporanea da far provare una “viva urgenza” nell’atto di portarle al pubblico.

La masnada delle aquile è un libro crudo, non mediato, in cui i minori kosovari auto-narrati dal fittizio Erion si raccontano nella loro quotidianità di adolescenti, in fondo ragazzi non troppo diversi da tutti gli altri: la mal sopportazione dell’istituto professionale cui sono iscritti, gli incontri con le ragazze, la realtà della struttura dove vivono, le piccole forme di delinquenza (dai furti alle corse in autobus senza biglietto).

A tutto questo si mescola il vivo senso di appartenenza, il significato delle proprie radici, della storia del Kosovo e dei villaggi di origine – aspetti che emergono sia in forma seria e dolorosa che più “folkloristica” e leggera, come in occasione della famosa partita di calcio del 2018 tra Serbia e Svizzera. La tragedia umana, edulcorata dal tono di Erion, emerge in realtà in più momenti del libro, facendosi metafora al principio della narrazione attraverso “la vecchia storia albanese che parla di serpenti e di morte”.

È il passaporto più inutile della storia, il nostro, non serve per viaggiare e devi negare di avercelo – racconta Erion, sottintendendo la natura di stato non pienamente riconosciuto del Kosovo, che li rende cittadini di serie B nel mondo. – Le cose funzionano al contrario, per noi shqipë kosovari”. Ed è questo mondo alla rovescia a rendere l’emigrazione clandestina, pericolosa, rischiosa un’autentica possibilità di riscatto per questi giovani. Ed è sempre questo mondo a rendere la delinquenza “un rito a cui dobbiamo sottometterci tutti prima o poi”.

Il riscatto socio-economico è un proposito reale per Erion e gli altri, che ripetono spesso come intendano mettersi a lavorare sodo una volta ottenuti i documenti:

“Che poi quando usciamo da qui noi lavoriamo, e sodo anche, paghiamo le tasse e ci spacchiamo la schiena per fare i muratori, per servire ai tavoli nei ristoranti, per fare tutti quei lavori di merda che gli italiani si sentono troppo fighi per fare. Quindi aggiustaci almeno i denti, ministro – afferma Erion in tono di sfida diretto a Matteo Salvini –, e non rompere, che poi quei soldi prima o poi te li ritorniamo con gli interessi e un bel sorriso”.

La masnada delle aquile risalta come testimonianza emotiva di un fenomeno migratorio minorile di cui si parla ancora (troppo) poco. La voce spontanea, diretta di questo Erion “collettivo” non piacerà a tutte le orecchie, troppo scomoda proprio nella sua profonda sincerità, ma come affermava il Marco Polo di Italo Calvino “chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio”.

Chi è Martina Napolitano

Dottoressa di ricerca in Slavistica presso l'Università di Udine, è direttrice editoriale di East Journal e scrive principalmente di Russia.

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