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BOSNIA: Safet Vukalic, una voce dal genocidio

Il 20 maggio l’ONG britannica Remembering Srebrenica ha condotto un’intervista interattiva via twitter con Safet Vukalic. A 16 anni, a Prijedor, Safet ha visto suo padre e suo fratello deportati nei campi di concentramento durante la pulizia etnica nel nord della Bosnia. Ne proponiamo una traduzione. #AskSafet

Sei nato a Prijedor, potresti descrivere la tua infanzia in quel periodo?

I tempi sono certamente cambiati ovunque, ma ho avuto un’infanzia felice e contenta. Fuori dall’orario scolastico ci riunivamo da tutto il quartiere e giocavamo tutti insieme, dal calcio al nascondino, ragazzi e ragazze, piccoli e grandi, senza discriminazioni.

La tua infanzia è stata felice, fino a quando la città di Prijedor non è stata catturata dalle forze serbe; come è cambiata allora la tua vita? 

Le cose non sono cambiate fino all’inizio degli anni ’90, quando il tono dei discorsi all’interno dei nostri parlamenti è cambiato, quando si fecero sentire le prime minacce di violenza da parte dei partiti serbi nel caso in cui le repubbliche [jugoslave] avessero deciso di proclamarsi indipendenti. Sicuramente nel mio quartiere non si notò nulla di strano fino al 1991-92.

Non c’erano segnali di allarme che stavano per accadere cose terribili in Bosnia e a Prijedor? 

Il linguaggio minaccioso dei leader serbi faceva presagire indubbiamente uno spargimento di sangue, ma molte persone pensavano che non sarebbe successo in Bosnia a causa della distribuzione eterogenea della popolazione. Io invece avevo la sensazione che sarebbe stato anche peggio in Bosnia, dato che lo stare insieme non era più accettato da alcuni.

Tuo fratello e tuo padre sono stati mandati nei campi di concentramento; te lo ricordi e puoi parlare delle condizioni dei campi di concentramento?

Il giorno in cui sono arrivati, ​​i soldati hanno fatto il giro di tutte le nostre strade e hanno intimato che tutti gli uomini uscissero. Appena ho visto degli uomini che camminavano lungo la strada, anche io sono partito per andare così come era stato ordinato, ma mia mamma ha alzato la voce per farmi tornare indietro, e così ho fatto. Sono stato fortunato a non essere stato trovato più tardi.

Si sentiva parlare di tante morti nei campi, e speravi solo che i tuoi sopravvivessero. Alcune guardie permettevano di portare il cibo ai prigionieri. Mia sorella maggiore era solita portare loro il cibo; a volte era permesso, altre volte le guardie ci minacciavano e non permettevano a nessuno di portare aiuto.

Come ti sei sentito quando hai rivisto la tua famiglia, dopo che sono sopravvissuti ai campi di concentramento e al genocidio?

Non ci avevano permesso di stare insieme, quindi quando ci siamo riuniti è stata una grande emozione. Eravamo separati quando la mia famiglia era nei campi di concentramento. Una volta riuniti, ero felice quando eravamo tutti al sicuro, ma ero ancora triste al pensiero di dover lasciare la nostra casa.

Cosa provi per coloro che hanno catturato tuo padre e tuo fratello e li hanno imprigionati nei campi di concentramento?

È difficile dare un senso generale a tutto ciò, perché alcuni di quei soldati che hanno commesso atti orribili erano i nostri vicini di casa, mentre proprio un soldato serbo ha impedito a mio padre di essere picchiato e torturato dagli altri soldati.

La mia rabbia è rivolta ai leader che hanno ordinato le uccisioni e le torture, piuttosto che alle singole persone. È una sensazione complessa. Non voglio minimizzare, ma per me la colpa è dei leader politici che hanno portato la mia famiglia a finire nei campi di concentramento.

È difficile parlare del genocidio e delle tue esperienze? 

Con il passare degli anni è diventato più facile affrontare il tema del genocidio, ma tocca ancora molte corde emotive. Inoltre, noi bosniaci ci troviamo ancora in un paese diviso e governato da persone che negano il genocidio: il genocidio contro di noi non è ancora finito.

Dici che la Bosnia è ancora un paese diviso e che è governato da chi nega il genocidio, con ciò intendi dire che il genocidio continua. Insomma, la negazione del genocidio è una continuazione del genocidio, e che impatto ha questo su di te?

La negazione del genocidio è la continuazione del genocidio e la cosa peggiore è che non sembra finire. La comunità internazionale non sembra interessata a rivedere l’Accordo di Dayton, che è stato firmato da persone accusate di genocidio, come Milosevic e Tudjman. Mentre quelli che hanno commesso il genocidio vengono celebrati, noi, i sopravvissuti al genocidio, abbiamo ancora da lottare con le nostre mani.

Data la complessità della guerra in Bosnia, dove stupri e violenza sessuale venivano perpetrati come arma di guerra, dove si sono allestiti campi di concentramento, persecuzioni, eccetera, è utile che alcuni di questi elementi siano riconosciuti come genocidio, come a Srebrenica, e altri invece no?

Come originario di Prijedor mi arrabbio quando qualcuno dice che lì non c’è stato genocidio, che era solo pulizia etnica. Se fosse stata solo una pulizia etnica, allora perché c’erano campi di concentramento, stupri di massa, omicidi di massa, lavoro forzato?

Tutto ciò che è accaduto in Bosnia è stato un genocidio e dobbiamo assicurarci che le persone possano ascoltarne le storie, le testimonianze e possano vedere che lo scopo e l’intenzione era di commettere un genocidio contro i musulmani bosniaci.

Dico sempre che il genocidio è avvenuto ovunque in Bosnia. Alcuni dicono che “non tutti sono morti” ma bisogna guardare alle intenzioni: il loro intento era quello di uccidere e “ripulire” la Bosnia dalla popolazione musulmana e poi spartirsela. Ciò, di per sé, dimostra che si tratta di un genocidio.

Diresti che i tribunali internazionali possono essere il primo passo per raggiungere la riconciliazione? O pensi che siano necessari altri strumenti?

Penso che i tribunali internazionali siano stati necessari come passo verso la riconciliazione, perché se fosse stata coinvolta solo la Bosnia, saremmo stati accusati di parzialità e anche se i tribunali internazionali hanno subito le stesse accuse, c’è ancora un certo senso di obiettività. Penso che la solidarietà tra i gruppi sia importante per la riconciliazione e che tutti noi, inclusa la comunità internazionale, dovremmo sostenere gruppi come le “Donne in Nero” che stanno cercando di influenzare il cambiamento, sia in Serbia che in Bosnia. Dobbiamo sostenere i giovani attivisti.

Con la politica delle “due scuole sotto un tetto”, come possono oggi i giovani in Bosnia imparare a superare l’odio e la divisione? Quali opportunità o speranze ci sono per l’integrazione dei giovani bosniaci?

La segregazione porta sempre a un’ulteriore segregazione. Insegnare ai bambini a odiarsi a vicenda sulla base della loro razza, religione ed etnia avrà sempre un impatto negativo. Dobbiamo tenere insieme questi bambini, insegnare loro che siamo più simili che diversi. Questi discorsi si devono intraprendere in giovane età, dobbiamo eliminare le “due scuole sotto lo stesso tetto” e dobbiamo assicurarci di riunire le persone, specialmente i giovani, piuttosto che seminare ulteriori divisioni.

Di recente ho visto che si può visitare online alcuni dei siti del genocidio di Srebrenica. Pensi che questo possa essere un nuovo modo per educare gli studenti e le persone?

Penso che in questo momento sia un ottimo modo per insegnare ed educare a comprendere il genocidio, ma non è come visitare di persona quei luoghi degli orrori, vederlo da soli e parlare con i sopravvissuti. I sopravvissuti devono essere ascoltati, se vogliamo avere il massimo impatto.

Come ti senti quando le persone parlano di oppressione o aggressione statale per via del lockdown contro il coronavirus? Cosa diresti a quelle persone? 

Penso che sia comprensibile che le persone provino ansia durante il lockdown, perché questa è una nuova esperienza per tutti noi, anche per quelli che hanno vissuto un precedente trauma. Ma dobbiamo guardare al futuro, pensare gli uni agli altri ed essere compassionevoli piuttosto che arrabbiati.

Come possiamo davvero trasformare il “mai più” in realtà?

Rendiamo il “mai più” una realtà educando i giovani, condividendo le storie dei sopravvissuti, denunciando i leader politici che istigano all’odio. Alla radice ci deve essere la compassione. Dobbiamo apprendere l’empatia reciproca. Dobbiamo sostenere le persone giovani e progressiste che vogliono assicurarsi che avvenga il cambiamento e dobbiamo farlo continuamente. “Mai più” diventerà davvero “mai più” quando capiremo che una persona che soffre va aiutiata senza remore. La compassione è la chiave.

Chi è Andrea Zambelli

Andrea Zambelli è uno pseudonimo collettivo usato da vari membri della redazione di East Journal.

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