Il 4 maggio è stato assegnato il premio Pulitzer, prestigioso riconoscimento nazionale americano per il giornalismo, la letteratura e la musica.
Il premio per la categoria International reporting è andato quest’anno ai giornalisti del New York Times, per “una serie di storie avvincenti, riportate correndo grossi rischi, che espongono le predazioni del regime di Vladimir Putin”, come si legge nella motivazione al premio. Si tratta del secondo premio in pochi anni per il giornale newyorkese, che già nel 2017 era stato insignito per aver svelato le tecniche usate dal presidente Putin per aumentare l’influenza russa all’estero.
Il lavoro premiato quest’anno, una serie composta da sei articoli e due video, si concentra su altre malefatte internazionali del Cremlino: i bombardamenti di ospedali e civili in Siria, la presenza di mercenari russi in Libia, l’avvelenamento di un uomo d’affari in Bulgaria, le operazioni del gruppo di intelligence russa GRU e l’espansione degli interessi russi in alcuni stati africani.
La notizia del premio non è piaciuta all’ambasciata russa negli Stati Uniti, che in una nota pubblicata su Facebook accusa sia il comitato del premio, sottolineando la responsabilità che si è assunto nel premiare materiali tendenziosi, sia lo stesso New York Times, reo di aver pubblicato contenuti russofobici e demonizzatori dell’immagine russa, che già gli avevano fatto meritare il premio nel 2017.
Oltre alla prevedibile reazione delle autorità, l’annuncio del premio ha suscitato sorpresa anche tra alcuni giornalisti russi. Uno su tutti Roman Badanin, caporedattore del giornale investigativo online Proekt, che in un post sul suo profilo Facebook ha dichiarato che alcuni degli articoli della serie premiata avrebbero ripreso informazioni rivelate dal suo giornale, ma non avrebbero citato la fonte. “Non sono avido e non mi faccio più illusioni sull’importanza del giornalismo russo nel mondo” scrive Badanin “ma noto che le due inchieste del New York Times, per le quali questo stimato giornale ha ricevuto oggi il Premio Pulitzer, ripetono nella maggior parte dei casi tre articoli di Proekt pubblicati mesi prima”. Tra marzo e settembre 2019, Proekt aveva pubblicato un’inchiesta in quattro parti sulle mire espansionistiche russe in Africa, sulla partecipazione di mercanari russi in Libia e sulle interferenze nelle elezioni di ben venti paesi africani. Le operazioni sono state ricondotte a Wagner, un gruppo militare privato, e a Evgenij Prigožin, uomo d’affari vicino a Putin e collegato anche alla famosa “fabbrica dei troll”. Secondo Badanin, gli articoli del New York Times sul tema, pubblicati a novembre 2019, arriverebbero alle stesse conclusioni delle inchieste di Proekt, senza però citarne mai il lavoro.
Si indigna, dal suo profilo Twitter, anche il collega Roman Dobrochotov, caporedattore del giornale The Insider, il quale fa notare come due altri articoli della serie riprendano storie pubblicate in precedenza da lui e colleghi. Si tratta di due articoli che raccontano le operazioni del gruppo dei servizi segreti russi GRU e, anche in questi casi, le indagini condotte in precedenza non sarebbero state citate. Questo appare piuttosto strano, poiché Dobrochotov, insieme ai colleghi di Bellingcat, è stato insignito l’anno scorso dello European Press Prize proprio per le inchieste che hanno svelato il coinvolgimento dell’intelligence militare russa GRU nell’avvelenamento dell’ex agente russo Sergej Skripal, avvenuto a Salisbury nel marzo 2018.
Dobrochotov ha un passato da attivista in prima linea: basta cercare il suo nome su un motore di ricerca per trovare immagini che lo ritraggono con un microfono in mano durante una manifestazione, o mentre viene trascinato via dalla polizia. In un’intervista, Dobrochotov ha dichiarato che il suo lavoro e i rischi che comporta non gli fanno paura.
Dall’altra parte, l’inchiesta sull’espansione russa in Africa, con la quale Badanin è stato nominato per il premio europeo per la stampa (European Press Prize) di quest’anno, ha causato ai giornalisti di Proekt diverse minacce e intimidazioni.
Le accuse dei giornalisti russi, per ora, apparirebbero piuttosto fondate: le indagini del New York Times sono arrivate dopo le rivelazioni dei giornali russi, ai quali, tuttavia, non è stato dato nessun credito. I giornalisti russi non gridano al plagio, né negano che i giornalisti americani possano essere arrivati alle stesse loro conclusioni, rivendicano bensì il diritto di essere citati per esserci arrivati prima.
A coloro che hanno riportato queste storie, a coloro che davvero hanno corso grossi rischi, scrivendo nel proprio paese e sul proprio paese, rimanendo costantemente esposti, ecco, a loro non potrà andare il premio Pulitzer, ma forse sarebbe dovuto un riconoscimento da parte dei colleghi americani.