Martedì 2 aprile la Corte di giustizia UE ha dato ragione alla Commissione europea e condannato Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca per mancato rispetto del diritto UE sul ricollocamento dei richiedenti asilo. Secondo quanto stabilito dai giudici del Lussemburgo, i tre paesi sono venuti meno agli obblighi da loro stessi assunti, rifiutandosi di conformarsi al meccanismo provvisorio di ricollocamento dei richiedenti asilo dalla Grecia e dall’Italia istituito nel 2015.
La corte ha concluso che “tali stati membri non possono invocare né le loro responsabilità in materia di mantenimento dell’ordine pubblico e di salvaguardia della sicurezza interna né il presunto malfunzionamento del meccanismo di ricollocamento per sottrarsi all’esecuzione di tale meccanismo”.
Già nel 2017 la corte aveva respinto i ricorsi di Slovacchia e Ungheria contro le quote obbligatorie di richiedenti asilo. La sentenza odierna non comporta conseguenze sul piano pratico, dal momento che il meccanismo di ricollocamento è arrivato a scadenza a nel 2017, ma stabilisce un precedente nell’ordinamento giuridico europeo e contribuisce a chiarire fin dove si spingano le prerogative degli stati membri nell’ambito delle politiche migratorie di fronte agli impegni comuni.
Un piano fallito in partenza
Nel settembre 2015, nel pieno della cosiddetta “crisi migratoria”, il Consiglio UE, nella configurazione dei ministri della giustizia e degli interni dei 28, decise venire incontro ai due paesi in prima linea nell’accoglienza dei richiedenti asilo, Grecia e Italia, in ottemperanza al principio di solidarietà. Ne risultarono due decisioni, di carattere vincolante e approvate con una maggioranza qualificata di due terzi.
La prima prevedeva il ricollocamento d’emergenza di 40.000 richiedenti asilo, su base volontaria e a cui Polonia e Repubblica Ceca decisero di aderire – ma senza poi dare seguito a quanto annunciato.
La seconda introduceva un meccanismo obblicatorio di ricollocamento, esteso a tutti gli stati membri, di 120.000 richiedenti asilo da realizzare nell’arco di due anni – anche se il numero venne poi ridotto a 33.000 nel 2017 in seguito al mancato riconoscimento di circa tre quarti delle richieste di asilo da parte delle autorità italiane e greche.
Ogni paese, nell’ambito del meccanismo, si impegnava ad ammettere una quota di migranti, stabilita secondo la capacità di assorbimento nella propria economia. Alla Polonia spettava l’accoglienza di 5.082 persone, all’Ungheria di 1.294 e alla Repubblica Ceca di 1.591 – complessivamente meno del 7% del totale. Ma i paesi Visegrad affermarono da subito che non si sarebbero conformati ai propri obblighi.
Il meccanismo, che avrebbe dovuto fare da precursore ad una più profonda riforma del sistema Dublino, si rivelò presto un fallimento: in seguito alla sostanziale inazione dei paesi membri, il meccanismo venne di fatto archiviato e dei 160.000 richiedenti asilo iniziali ne vennero ricollocati solo 40.000.
Inutili gli appelli dal Parlamento europeo, da cui si erano levati a più riprese richiami all’adempimento degli obblighi da parte degli stati membri. Dal 2016, con il passaggio all’approccio transazionale del “patto UE-Turchia” (un piano che EastJournal già allora definì illegittimo e inefficace), di nuovo rilanciato nelle settimane scorse dopo gli scontri sull’Evros, ogni discussione su una riforma più equa del sistema europeo d’asilo è stata di fatto messa da parte.
L’assenza dell’Europa nelle politiche di asilo
In una fase di stallo, che perdura tutt’ora, delle negoziazioni per la riforma del regolamento di Dublino, la scelta di ricorrere a un meccanismo di ricollocamento doveva servire a lanciare un messaggio politico di solidarietà nei confronti di Grecia e Italia. Stando infatti agli accordi vigenti, i primi paesi di accesso devono farsi carico delle richieste di asilo.
L’architettura del sistema d’asilo europeo comporta dunque la creazione di un collo di bottiglia nei paesi di frontiera dell’Unione che si trovano lungo le rotte migratorie principali – un fenomeno che interessa in particolar modo le isole greche, dove decine di migliaia di migranti restano ancora oggi bloccati nei campi profughi, in condizioni abitative precarie ed esposti a rischi di contagio, in attesa di una decisione. La Commissione europea ha annunciato per il 2020 la proposta di un “nuovo patto sulla migrazione e l’asilo“. Ma la riforma del regolamento di Dublino resta ancora un miraggio e, in tempi di crisi sanitarie e di tensioni alle frontiere dell’Ue, fatica a guadagnare spazio nel dibattito pubblico.
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