Kosovo

KOSOVO: Un serbo in nazionale. Ma Belgrado non vuole

Sempre più spesso negli ultimi anni i tifosi delle squadre di calcio di tutta Europa si rendono protagonisti di episodi di razzismo contro i giocatori. Formalmente, le singole società e le federazioni nazionali sostengono le campagne contro il razzismo promosse con scarso successo da Uefa e Fifa. Quanto successo pochi giorni fa in Kosovo, però, non ha nulla a che fare con i tifosi ma riguarda direttamente la situazione politica del paese e i tesi rapporti con la Serbia.

Il caso di Ilija Ivić

Un paio di settimane fa si è diffusa la notizia di una possibile convocazione per la nazionale di calcio del Kosovo Under 19 del diciassettenne Ilija Ivić. Inizialmente accolta come esempio di integrazione, la notizia è presto diventata l’occasione per polemiche e ha avuto pesanti conseguenze. A creare scalpore non sono stati i goal e le giocate del ragazzo, già da tre anni tesserato dal KF Flamurtari di Pristina, ma la sua appartenenza etnica. Ivić infatti è un serbo residente a Gračanica, uno dei sei comuni a maggioranza serba a sud del fiume Ibar, e potrebbe diventare, qualora la convocazione dovesse concretizzarsi, il primo serbo a giocare per la nazionale kosovara.

Uno smacco inaccettabile per le autorità serbe, che hanno pensato bene di esercitare forti pressioni per spingere il ragazzo a rinunciare all’idea. A pagarne le spese non è stato infatti solo Ilija, vittima di una campagna di diffamazione lanciata da alcuni tabloid serbi, ma anche la madre Tanja, licenziata dal centro di educazione culturale gestito dai serbi nella città di Gračanica. Secondo alcuni giornali, poi smentiti, stessa sorte sarebbe toccata al padre, che non ha però escluso che quanto accaduto alla moglie possa avvenire anche a lui in futuro.

Le reazioni

Le pressioni e il licenziamento sono stati fortemente criticati dalla Federazione kosovara, che si è detta “scioccata”, condannando “questo atto odioso intrapreso dai leader del sistema serbo parallelo che mirano a infondere paura nei cittadini”.

Il neo primo ministro Albin Kurti in un tweet ha parlato di atto di “segregazione di Belgrado”, chiedendo che il ragazzo venga lasciato libero di giocare ovunque voglia. Sostegno al giovane calciatore è arrivato anche dalle ambasciate di Germania, Stati Uniti  e Italia.

Oltre il calcio. Il controllo di Belgrado sui serbi del Kosovo

La vicenda di Ilija Ivić mostra come, a distanza di dodici anni dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, Belgrado eserciti ancora un enorme controllo sociale in alcune zone del paese. Tutti i 10 comuni a maggioranza serba del Kosovo (quattro nel nord e sei a sud del fiume Ibar) sono guidati dalla Srpska Lista (SL), diretta espressione del governo serbo e del presidente Aleksandar Vučić.

A questo va aggiunto che in tutti i comuni kosovari esiste un’amministrazione parallela controllata e finanziata da Belgrado e non riconosciuta dalle autorità di Pristina. Queste istituzioni parallele agiscono come veri e propri organi esecutivi dell’Ufficio del Kosovo e Metohija, parte del governo serbo, con il compito di fornire sostegno alla comunità serba attraverso, ad esempio, la distribuzione di materiale agricolo o la gestione dei servizi medici ed educativi. Il loro funzionamento è regolato dal diritto serbo, accrescendo in maniera illimitata il potere di ricatto di Belgrado sulla sorte dei lavoratori, così come accaduto con la madre di Ivić. Non sorprende quindi il plebiscito ottenuto alle ultime elezioni kosovare, con medie attorno al 98% dei voti nelle aree a maggioranza serba, dalla Srpska Lista, da cui dipendono concretamente posti di lavoro, donazioni e finanziamenti.

Se da un lato, questi meccanismi forniscono servizi essenziali per i serbi che vivono in Kosovo, dall’altro contribuiscono ad alimentare una condizione di segregazione della comunità serba, ostacolando quei contatti e relazioni con gli albanesi che inevitabilmente si costruiscono nella quotidianità, soprattutto a sud del fiume Ibar. Una condizione apparentemente criticata da Belgrado, ma che in realtà permette al governo serbo di continuare a parlare di “persecuzione etnica” e “discriminazione”. A dimostrazione di questa ipocrisia basti pensare che, mentre giocare per la nazionale del Kosovo viene dipinto come un “tradimento”, i ministri, i deputati e i sindaci della SL non solo lavorano sotto le insegne e la bandiera del Kosovo, ma ricevono un lauto stipendio proveniente dal bilancio dello stato kosovaro, ufficialmente non riconosciuto da Belgrado.

Chi, dunque, come Ilija, decide di sfuggire alle strette logiche di controllo e separazione etnica, gettando la maschera su qualsiasi forma di ipocrisia e calcolo politico, si trasforma immediatamente in un “nemico interno” per le autorità serbe del Kosovo. Questa volta a pagarne le conseguenze è stato un giovane calciatore diciassettenne la cui unica colpa è quella di voler giocare a pallone.

Foto: Illustrazione di Jete Dobranja per Prishtina Insight

Chi è Marco Siragusa

Nato a Palermo nel 1989, ha svolto un dottorato all'Università di Napoli "L'Orientale" con un progetto sulla transizione serba dalla fine della Jugoslavia socialista al processo di adesione all'UE.

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