A Tripoli! o no? L'Italia usa la tragedia dei migranti per tornare in Libia

Tripoli, bel suol d’amore. A più di un secolo dalla guerra di Libia, il nostro paese torna a guardare con rinnovata bramosia alla sponda sud Mediterraneo e per farlo si aggrappa ai corpi che galleggiano nel mare, i morti dell’ennesima tragedia di migranti. E così l’operetta ha inizio: ci si indigna contro Bruxelles, che “è indifferente”, e si chiede che all’Italia venga assegnato un mandato internazionale per pattugliare le coste libiche allo scopo di “distruggere i barconi”. Trattandosi di acque libiche, deve essere il governo libico a invocare l’intervento – italico, in questo caso. Ma in Libia governo non c’è. E quindi ecco che, oltre a pattugliare le coste libiche, diventa necessario “mettere in sicurezza limitate aree costiere”, per poi sostenere un qualche governo amico cui fare ottenere il riconoscimento internazionale. L’impressione è che il governo, con la scusa del disastro umanitario, voglia rimettere il piede in Libia da cui l’Italia è stata scacciata a seguito dell’intervento anglo-francese del 2011.

 Gli interessi italiani in Libia

In Libia abbiamo interessi strategici ben più importanti della sorte dei migranti, c’è il petrolio, le infrastrutture, le telecomunicazioni, le banche. Prima dell’intervento anglo-americano l’Eni era il primo operatore internazionale nell’estrazione di gas e petrolio e ha sottoscritto con il governo Gheddafi accordi per il rinnovo delle concessioni fino al 2045. Nello stesso settore erano attive Saipem e Snam progetti (che fanno capo ad Eni), Edison e Tecnimont. Anas era impegnata nella costruzione dell’autostrada costiera libica mentre Impregilo stava edificando tre poli universitari. La Sirti aveva vinto un bando per  la fornitura e messa in opera di oltre 7.000 km di cavi di fibre ottiche per un importo globale di 161 milioni di euro. La Pirelli Cavi aveva ottenuto un contratto da 35 milioni di euro per la fornitura e posa di cavi a banda larga. L’Ansaldo stava costruendo le ferrovie e l’Alenia gli aerei civili. La Libia era per l’Italia un partner fondamentale e necessario, un boccone abbastanza gustoso da interessare i francesi che, con la presidenza Sarkozy, spinsero per l’intervento militare credendo di poter mettere le mani sull’ambita preda. Ma la guerra civile che ne è seguita ha dimostrato il contrario. Oggi l’unica azienda rimasta in Libia è Eni che si avvale dell’aiuto di milizie tribali locali per difendere i propri giacimenti.

La politica del make-up

Da più di un secolo la Libia è la garanzia dell’influenza italiana sul Mediterraneo. Una – timida – difesa dallo strapotere francese. E’ una storia vecchia, che risale all’occupazione francese della Tunisia del 1881, il famoso “schiaffo di Tunisi” con cui i cugini d’oltralpe ci soffiarono il controllo di un paese su cui l’Italia aveva investito molto, inviando coloni e siglando un trattato nel 1868. Anche se sembra il contrario, il mondo non cambia. Il make up delle relazioni internazionali impone un minimo di etichetta, e di invasioni in grande stile non se ne fanno più molte, ma la competizione tra Italia e Francia per il Mediterraneo rimane. Così, nel 2011 arriva un nuovo “schiaffo”: in un momento di estrema debolezza italica, gli anglo-francesi si sono presi la Libia con la scusa (validissima, nel mondo del make-up) di abbattere Gheddafi. Ma alle potenze europee (o presunte tali) non interessa un fico dei migranti, dei dittatori, dei diritti umani. Gli stati sono votati al realismo e usano ogni mezzo per giungere ai loro scopi. Così, come nel 2011 a Parigi e Londra non interessava Gheddafi, oggi a Roma non interessano i migranti. Essi sono una valida scusa e nel mondo del make-up ci fa anche sembrare buoni.

Le presunte colpe dell’UE

La stampa italiana e buona parte dell’opinione pubblica ha puntato il dito contro l’Unione Europea. E’ lei la colpevole, lei che non fa abbastanza. Queste accuse sono arrivate anche dal governo italiano che, però, mente sapendo di mentire. Poiché il governo italiano sa bene come funziona l’UE – a differenza dei giornalisti e dei cittadini – e quindi sa bene che  l’insieme delle norme sulla sorveglianza delle frontiere europee mediterranee è emanato da autorità che, all’interno dell’UE, sono eterogenee e non necessariamente in accordo fra loro. E’ il caso del sistema europeo di sorveglianza frontaliera, Eurosur, o del progetto di sorveglianza marittima Marsur.

Il governo italiano questo lo sa, e sa che è solo persuadendo gli altri stati che si può giungere a misure comuni. Ma le richieste e le pressioni del governo italiane non sono andate, e non vanno, nella direzione di una maggiore integrazione dei sistemi europei di lotta al traffico di esseri umani o della creazione di una omogenea politica di controllo dei flussi migratori. L’Italia chiede di poter andare a fare una guerricciola per riprendersi il tanto prezioso “scatolone di sabbia”. Un paraculismo degno di nota.

Il dito e la luna

Francesca Tomasso, in un articolo per Q-Code, indica chiaramente quali sono le misure che si potrebbero mettere in campo per evitare le tragedie del mare, offrendo ai migranti un canale sicuro per giungere in Europa e fare richiesta d’asilo: dai corridoi umanitari alla procedura di entrata protetta, fino all’esternalizzazione delle richieste di asilo, ovvero della creazione di centri che offrano ai migranti la possibilità di richiedere un visto o di depositare una richiesta di asilo in maniera legale nei Paesi di transito o di origine.  Ma tutto questo non è entrato a far parte del dibattito pubblico di questi giorni. Il “crucifige” verso l’Unione Europea serve a mascherare l’indifferenza del governo italiano interessato non alla sorte dei migranti ma a capitalizzare, da un punto di vista politico, la tragedia.

Il mantra di questi giorni è: “bisogna distruggere i barconi”. Ma distruggere i barconi non significa fermare l’emigrazione dai paesi in guerra di persone che continueranno ad attraversare il deserto, ad affidarsi ai trafficanti per lasciare i loro paesi, e a morire durante il tragitto fino alle coste del Mediterraneo. Servirà solo a limitare le tragedie del mare, a fingere che i migranti non esistono più, che non muoiono più. Come si dice: occhio non vede, cuore non duole.

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

Leggi anche

LIBIA: Pronti alla guerra, Italia compresa. La missione internazionale sta per partire?

Azioni militari contro lo Stato Islamico nell’area di Sirte. Addestratori per ricostruire le forze di …

Un commento

  1. mi piace questo punto di vista. Si distacca da quello che si sente nei media generalisti e offre spiragli di verità più concreti dei soliti mea culpa.

WP2Social Auto Publish Powered By : XYZScripts.com