SERBIA: Marchionne e Tadic al salone di Ginevra, la nuova Cinquecento si farà a Kragujevac

di Matteo Zola

E così Marchionne, amministratore delegato del gruppo Fiat, si è presentato al salone internazionale dell’automobile di Ginevra in compagnia di Boris Tadic, presidente della Serbia. Erano lì per presentare il nuovo modello di Fiat Cinquecento,”un modello destinato a risollevare il mercato europeo”. Mercato in cui Fiat non va granché bene. La nuova Fiat -acronimo di Fabbrica Italiana Automobili Torino- sarà prodotta a Kragujevac, in Serbia, negli stabilimenti in cui, ai tempi di Tito, si produceva la Zastava (e una serie di armamenti vari). Ecco spiegata la gongolante presenza del presidente Tadic che ha dichiarato: ”Se potessimo avere dieci di investimenti come questo la Serbia sarebbe un paese del tutto differente, ed è per questo che siamo orientati a continuare in questa direzione”, ha detto Tadic che ha annunciato contatti con altri gruppi automobilistici e con compagnie dell’indotto auto di vari paesi, fra cui Corea del sud, Giappone, Italia e Germania.

Sergio Marchionne e Tadic hanno parlato sopratutto dei problemi della recessione globale. E con lui si e’ trovato d’accordo sul fatto che per i lavoratori Fiat il modo migliore per conservare il posto di lavoro è la qualità del lavoro. Cioè: chi lavora bene, lavora ancora. Si vede che i lavoratori Fiat italiani non sapevano più fare le automobili. Intanto ieri mattina il sito Affaritaliani.it ha pubblicato una tabella che riguarderebbe le future produzioni della Fiat in Italia e dalla quale si desumerebbe l’esistenza di un piano di Fiat riguardante la chiusura dei due stabilimenti: Mirafiori e Pomigliano d’Arco. Secca la smentita da Torino.

Ma se a Torino piangono, a Kragujevac non ridono. Nel 2010 Maria Serena Natale, giornalista del Corriere della Sera, fece un viaggio a Kragujevac, “la Detroit in versione serba”, e tra le testimonianze che raccolse ci fu quella di Radisa:

Oggi ci propongono condizioni di lavoro disumane. Troppe pressioni, si lavora dal lunedì al venerdì in due turni di otto ore, due pause di dieci minuti e mezz’ora per pranzo. In futuro ci sarà un tetto di 120 auto prodotte in un giorno e se a fine giornata non si raggiunge l’obiettivo, si resta. Lo stipendio doveva essere 40 mila dinari, circa 400 euro, non siamo arrivati a 30 mila. Un chilo di pane costa 35 centesimi e lo stipendio di un professionista raramente supera i 500 euro, ma far studiare i figli costa. Mia moglie è insegnante e guadagna 400 euro al mese, la nostra figlia maggiore è andata al mare la prima volta l’anno scorso.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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6 commenti

  1. Bonaiti Emilio

    Modesta domanda: Ma é così disdicevole che il capo di un complesso industriale che ha investito in Serbia ove produce un nuovo modello di autoveicolo si accompagni al presidente del paese nella visita a un Salone automobilistico?
    Il tempo passa ma ricordo che quando la Fiat investì nell’Unione Sovietica fondando una fabbrica a Togliattigrad (salvo errore) l’avvenimento fu salutato come una prova di collaborazione internazionale. E’ cambiato qualcosa?

    • Disdicevole no di certo. Secondo me è un segno che le cose, in Italia, non vanno come dovrebbero. Poiché se aprire stabilimenti all’estero significa chiuderli in Italia, certo non possiamo esultare. Non è “collaborazione” secondo me.

      Nel mondo dei sogni dove ogni tanto vivo io, spero sempre che si riesca a costruire un mercato del lavoro europeo che garantisca uguali diritti ai lavoratori di ogni Paese, che non renda più conveniente aprire fabbriche in Paesi dalle minori tutele per i lavoratori, minori costi di manodopera, minori spese per la sicurezza degli impianti.

      Certo, occorre anche il contrario: un costo del lavoro che sia sostenibile per le aziende, una pressione fiscale equa, quindi norme comuni a livello europeo e garanzie anche per chi investe, non solo per chi lavora. Ma è il mondo dei sogni, mi sa.

      Matteo

  2. Anche Omsa (Golden Lady) di Faenza chiuderà, per una delocalizzazione in Serbia. Le molte manifestazioni delle lavoratrici – 230 donne – (http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/02/05/operaie-omsa-portano-teatro-strada-loro-vita-licenziate-video/189196/) e forse il sostegno che hanno ricevuto, per ora hanno solo permesso di prolungare la cassa integrazione di sei mesi.

    Nel mondo dei sogni – dove vorrei vivere anch’io – non dovrebbe mettere in concorrenza lavoratori di paesi diversi, dove i salari sono diversi perchè le condizioni di vita sono diverse. Altrimenti Marchionne – come i dirigenti Omsa – dovrebbero avere stipendi da a.d serbi e vivere in Serbia, o qualsiasi altro posto in cui delocalizzano. Che non ci vedo proprio niente di male.
    Ecco, l’ho detto.

    • Bonaiti Emilio

      Caro Matteo, é vero che un uomo senza sogni non vive, ma la vita reale é cosa diversa. Il tuo ragionamento pecca, a mio personale giudizio, di eurocentrismo in quanto dimentichi che il mondo “é più grande”. Noi europei ci troviamo di fronte a una sfida mondiale in una guerra, per fortuna commerciale, nella quale vince chi é in grado di offrire prodotti migliori a prezzi minori. Questa guerra si combatte con la produttività e non con corali manifestazioni di piazza, invocando, a suon di bandiere rosse, un passato che é passato per sempre. I capitali, che non hanno né cuore né colore, vanno dove il rendimento é maggiore. Sono dati di fatto che possono dispiacere e sconfortare ma restano dati di fatto. Quando il marxista Deng Xiao Ping (spero di averlo scritto bene) proclamava: “Non importa che il gatto sia bianco o nero, purché acchiappi i topi” dimostrava di avere messo da parte i sogni e di vivere nella realtà.

      • Gent. Emilio,
        il suo discorso fila, non fosse che i vincitori o i perdenti della guerra che lei descrive sono le imprese, raramente lo stato, certamente non i lavoratori di quelle imprese, né i cittadini di quel paese. Se la fiat delocalizzasse tutta la produzione in paese dove il costo del lavoro è più basso, gli italiani non saranno più ricchi, sotto nessun punto di vista. a meno che gli italiani siano tutti proprietari o imprenditori. Se per mantenere la Fiat sul territorio i lavoratori saranno costretti a condizioni al di fuori dai vincoli del contratto nazionale di categoria, gli italiani non saranno più ricchi.
        L’impresa guadagna, forse vince, dal produrre con costi minori. Ma oltretutto ciò non la renderà più produttiva in senso stretto, né renderà i suoi prodotti migliori.
        Denunciare inoltre le condizioni di lavoro che sussistono in altri paesi, tanto più che talvolta le condizioni praticate da “multinazionali” sono peggiori di quelle locali (si veda il caso delle fabbriche Apple in Cina), mi sembra necessario, tanto più se non si tratta solo di una differenza di salari, ma di garanzie che in Europa si sono ottenute con lunghe lotte, e a cui non si dovrebbe essere costretti a rinunciare.
        Ci possono, ci devono essere degli incentivi alle imprese a rimanere su di un territorio nazionale, penso ad una minor tassazione del lavoro, alle esternalità positive. Lo Stato, che per definizione dovrebbe garantire il benessere collettivo (come poi questo benessere venga misurato è un capitolo a parte), dovrebbe trovare. questi incentivi

  3. Bonaiti Emilio

    Cara Dany, lo Stato dovrebbe fare tante cose ma purtroppo viviamo in tempi difficili. L’Europa, e con l’Europa la sua economia, sotto la spinta dei paesi emergenti, traballa e perde colpi. D’altronde un continente che non ha una comune linea politica, economica, finanziaria, con paesi come la Grecia precipitata nel fallimento nel silenzio colpevole di altri, si trova in difficoltà di fronte a paesi o meglio a continenti emergenti come la Cina, il Brasile, l’India che l’assediano da tutte le parti. Sarò pessimista ma mi sembra che viviamo in un’Europa che si bea del suo passato, che avanza guardandosi dietro, un continente sgomento e diviso di fronte alle grandi sfide che il nuovo secolo pone,

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