Izet Sarajlić, il poeta che restò a Sarajevo

Era un intellettuale, camminava rasente ai muri di Sarajevo quando il cecchino dal cimitero ebraico sparava a caso sulla città in cambio di cento marchi per ogni persona uccisa. Era un intellettuale, stava in fila per l’acqua o per il pane. Era un intellettuale e quindi restava, senza retoriche né pubblicità, dove era il suo posto: in città, a condividere la storia guasta della sua gente. Perché, a ben vedere, forse avrebbe potuto fuggire dalla città assediata (contatti e amici in giro per il mondo ne aveva pure) ma rimase, forse per “una questione di gusto” come scrisse, da un’altra città assediata, il grande poeta polacco Zbigniew Herbert. E in un’epoca, questa nostra, in cui la diserzione sembra parola d’ordine, in cui la fuga dalla crisi della nostra civiltà sembra l’unica soluzione, le poesie di Izet Sarajlić ci ricordano dov’è che deve stare chi esercita il mestiere dell’ascolto, chi cerca di dar voce al silenzio. E forse dove è giusto rimanere, chiunque noi siamo, foss’anche per una questione di gusto.

Non sapevo chi fosse Izet Sarajlić almeno fino a ieri l’altro, né posso dire di saperlo con esattezza oggi che ho letto un suo libretto, Chi ha fatto il turno di notte, capitatomi per caso tra le mani mentre frugavo le bancarelle dell’usato di via Po. Anzi, non ho la benché minima idea di chi fosse Izet Sarajlić, so però che era nato a Doboj, in Bosnia Erzegovina, nel 1930 ed è morto a Sarajevo nel 2002. Di famiglia musulmana ha conosciuto grande fama in vita sia in Jugoslavia che nei paesi del Patto di Varsavia: pare che la gente sapesse i suoi versi a memoria. Cosa non difficile da credere: la sua poesia è trasparente, semplice e leggera, parla d’amore per una donna, sua moglie, e per una città, Sarajevo. Così questo poeta, vissuto tra “la seconda e la terza guerra mondiale”, nell’euforica jugoslavia e nella tragica ex-jugoslavia, ha usato l’amore per raccontare la vita e la storia della sua gente prima che cominciasse “la follia nazionalistica degli slavi del sud”.

Di quella follia sappiamo tutto, e non è caso di indugiarvi qui. Della sua poesia sappiamo meno poiché in genere assai poco sappiamo dell’amore che, a leggerlo in queste pagine, emerge nella sua semplicità. Già, l’amore è semplice: non c’è bisogno – ci dice Izet Sarajlić – di avere ali per volare quando si hanno le braccia per stringere la persona amata, le mani da tenere nelle mani, in un tempo che scorre lento come la Milijacka, fiume che sì, non sarà mai la Senna, ma che per questo non è meno tragico: “per questo sarà forse minore la mia fame di te e minore il mio amaro diritto di non dormire quando incombono sul mondo la peste e la guerra?”.

Ecco, sì, la guerra. Izet Sarajlić l’ha vista molto da vicino. Suo fratello Eso morì fucilato per mano fascista, italiana, durante la Seconda guerra mondiale. E il ricordo della guerra si riverbera anche negli anni a seguire e diventa un tormento. In una poesia del 1964, scritta al tavolino del caffé Slavija di Praga, dice: “quando sono lontano da te / a ogni momento qualcuno può gettare / una bomba fra noi”. Si riferisce alle vicende della Storia che entrano prepotentemente nella vita di tutti i giorni: “al servizio dell’uomo / hanno inventato l’aereo, il telefono, la posta / ma nell’aria circolano solo le cattive notizie. / Quanti soldi perché i corrispondenti speciali / possano scrivere del finimondo”. Ed è così che matura l’impossibile volontà della fuga: “Cara, e se provassimo a uscire dalla Storia?”. Ma non si può uscire dalla Storia, specie se vivi in una città come Sarajevo.

Arriva così il 1991 e la guerra fratricida, Izet Sarajlić resta a Sarajevo: “chi è stato responsabile della felicità, lo è anche dell’infelicità”, scrive Erri De Luca nella sua prefazione. In una poesia del 1959, dedicata alla figlia Tamara, Sarajlić scriveva: “voi tutte future Tamare, prendetelo / in dono vi offro stasera tutta la storia fino ad oggi / tutte le sofferenze umane da Adamo ed Eva. / Se la vostra vita non sarà migliore di tutte le nostre / non accusate le stelle ma i padri”. Izet Sarajlić sembra non volersi sottrarre alla responsabilità, quella della tragedia, che riguarda tutti. Viene in mente una battuta, messa in bocca a un altro (improbabile) poeta, del film Profesionalac, di Dušan Kovačević: “Non è colpa di Milosevic, siamo noi che siamo delle merde” e che termina con la bastonatura del poeta. Battuta amara che racchiude una verità rimossa, quella della responsabilità collettiva della guerra, necessaria premessa (finora mancata) ad una pace duratura nei Balcani.

Ma torniamo a Izet Sarajlić, alle file per l’acqua o la farina. La guerra non lo uccide, e risparmia anche la figlia e l’amata moglie che morirà pochi anni dopo, nel 1997. A lei dedica i versi più struggenti: uomo a metà, perso in una Sarajevo nazionalista che dimentica in fretta i suoi poeti jugoslavi, Izet passa più tempo sulla tomba della moglie che a casa: “ti dirò anche quando nella mia disgrazia sono più felice: / quando al cimitero mi sorprende la pioggia. / Mi piace da matti inzupparci di pioggia insieme!”.

Quella di Izet Sarajlić è una poesia potente, una voce limpida e forte, risultato di una vita “strigliata al fiume da una spazzola di ferro” per usare un’espressione di Erri De Luca. Personalmente sono stato un massiccio lettore di poesia e vi ho a lungo cercato il segreto, l’arcano, l’avanguardia, addentrandomi in sottoboschi dove il significato si andava perdendo nell’intrico dell’intellettualismo. Ci sono entrato fino in fondo e ho scoperto che era un cul-de-sac: non c’era nessun segreto. Nel percorso a ritroso mi sono imbattuto in questo libretto, che consiglio caldamente, poiché la poesia di Sarajlić un segreto ce l’ha e non ne fa mistero: la vita e l’amore sono cose semplici, un tenersi per mano, un parlare delle gazze in giardino. Può venire la barbarie, la guerra, la tragedia ma la sottile membrana dei sentimenti è uno scudo più forte. Senza quello scudo è la vera morte: “Fosse almeno quel terribile, per umiliazione a nulla paragonabile, anno 1993 quando non avevamo nient’altro che l’un l’altro. Magari fosse ancora quel terribile, quel tante volte maledetto anno 1993! Avrei avuto ancora cinque anni pieni da poterti guardare e tenerti per mano”.

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foto da Terza Pagina

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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2 commenti

  1. Bellissimo articolo, bellissime parole per commemorare un grande Poeta ahimè poco conosciuto…

  2. Veramente un articolo eccezionale, questo poeta l’ho conosciuto dalle parole di Erri De Luca durante un incontro sul tema degli Intellettuali in tempo di guerra. Non ho potuto poi fare a meno di comprare il suo libro e innamorarmi di lui… magnifico, uno dei grandissimi poeti del novecento, che spesso mi piace pensare da qualche parte a chiacchierare con Nazim Hikmet e Ungaretti…
    Grazie

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