Nel discorso pubblico bosniaco odierno, due sono i periodi storici che godono di particolare attenzione: il medievale regno di Bosnia (1290-1463), e l’amministrazione asburgica dal 1878 al 1918. La seconda, in particolare, è stata il periodo di più rapida modernizzazione per il paese balcanico, dopo cinquecento anni di dominio ottomano. Illuminazione elettrica, tram, edifici in stile art-decò: il progetto dell’amministrazione asburgica era di trasformare Sarajevo da provinciale cittadina ottomana in fulgido esempio della modernità europea. La città doveva rappresentare in concreto, tramite lo stile architettonico neomoresco, l’ideologia nazionale del Bošnjaštvo, l’unità nazionale di tutti i popoli della Bosnia Erzegovina, propugnata dal governatore austro-ungarico Béni Kállay.
L’eredità culturale asburgica resta una delle risorse turistiche della Bosnia Erzegovina odierna, e il suo recupero è esemplificato da ricostruzioni quali quella della Vijećnica, la biblioteca municipale, e del Museo Nazionale. Eppure, questo recupero culturale non è scevro da ombre: ne scrive Piro Rexhepi in un articolo per la rivista Intervention intitolato “The politics of postcolonial erasure in Sarajevo“.
La resurrezione dei luoghi dell’eredità asburgica, scrive Rexhepi, paradossalmente recupera istituzioni che erano un tempo l’incarnazione dell’espansione coloniale, sottolineando le contraddizioni del passaggio dall’Europa coloniale all’Unione europea post-coloniale, nella continuità del sistema capitalista. Tali marcatori territoriali diventano luoghi in cui si articola oggi la protesta, centrata attorno all’eredità del recente passato socialista.
E’ il caso della Vijećnica: ricostruita con fondi europei ed austriaci, fu riaperta in pompa magna il 28 giugno 2014 con un concerto della filarmonica di Vienna, come “dono dei cittadini europei al popolo di Sarajevo”. Ma dalla parte opposta del fiume Miljacka, un gruppo di giovani cittadini legati al movimento dei plenum protestava con maschere di Gavrilo Princip e slogan come “l’antimperialismo ha avuto inizio a Sarajevo”. Tra di loro, anche gli ex impiegati della biblioteca civica, contrari alla trasformazione dell’edificio da biblioteca pubblica in spazio privato per mostre ed eventi.
La Vijećnica, nata come edificio del governo comunale asburgico, era stata infatti resa spazio pubblico in epoca jugoslava. La sua ri-privatizzazione, nota Rexhepi, “indica un’inversione delle pratiche e delle promesse socialiste di decolonizzazione“. Un episodio di una tendenza più ampia, in cui il restauro di siti coloniali da parte degli ex colonizzatori si accompagna alla “cancellazione e banalizzazione delle storie di lotta collettiva e delle questioni di responsabilità politica”, secondo Araujo e Maeso. Nota Rexhepi che “i futuri imperiali sono adeguati per Sarajevo e l’Europa in una maniera che i futuri socialisti non sono”.
Nel secondo caso, quello del Museo Nazionale di Bosnia Erzegovina (Zemaljski Muzej), una campagna di sensibilizzazione pubblica era stata lanciata nel 2012-2013 con lo slogan “io sono il museo” (Ja sam Muzej) contro l’abbandono delle istituzioni culturali statali da parte dei partiti etnonazionalisti al potere. La campagna metteva al centro i lavoratori del museo e ne sottolineava l’aspetto di spazio pubblico.
Eppure, sostiene Rexhepi, dimenticava le origini e il contenuto coloniale del museo stesso, istituito dagli Asburgo come luogo di emanazione di una identità nazionale bosniaca post-ottomana e di sincronizzazione della nuova provincia imperiale con la storia europea. La mostra permanente, che ha superato pressoché indenni il settantennio jugoslavo e le tre decadi di guerra e dopoguerra, continua a nascondere il passato ottomano, inteso come incidente ed intrusione, secondo una prospettiva teleologica asburgica di “ritorno all’Europa” che ben si confà all’attuale discorso di integrazione europea della Bosnia Erzegovina indipendente.
Conclude Rexhepi che “re-situando Sarajevo lontano dal suo passato ottomano e socialista, l‘eredità coloniale asburgica è diventata una pertinente e potente narrativa nei processi di integrazione europea”, con parallelismi tra l’UE e gli Asburgo in cui “il passato coloniale è presentato come un futuro virtuoso“. Tale narrativa, tuttavia, non solo nega la storia coloniale della città, ma scollega l’Europa stessa dalla sua storia di conquista, colonialismo e razzismo, costruendo un discorso eurocentrico e neoliberale in cui “l’Europa si afferma come custode del passato e del presente di Sarajevo”.