Jasmin Jusuf Jusufović era solo un bambino, quando, insieme alla sua famiglia, è stato travolto dagli eventi del genocidio di Srebrenica.
Un anno fa, in occasione dell’anniversario, ha deciso di raccontare la sua storia su Twitter. Da questo e dalla collaborazione di molte altre persone, scosse dalla testimonianza di Jasmin, è nato il progetto Memento Vivere. La storia di Jasmin Jusuf Jusufović e della sua famiglia si può leggere in nove lingue. In seguito proponiamo la traduzione della testimonianza in lingua italiana, a breve disponibile anche sul sito di Memento Vivere.
Jasmin Jusuf Jusufović
Il piccolo principe
All’alba di quell’8 luglio, da qualche parte nei boschi, stava tuonando abbastanza forte da svegliarci. Mi trasferii quindi nel mio rifugio, accanto al congelatore, dove il muro era più spesso. In quegli ultimi giorni correvamo spesso verso il muro più spesso della casa e, correndo, contavamo le granate. Da quel 9 luglio, per ammazzare il tempo nel mio nido accanto al congelatore, passavo il tempo contando le granate che scoppiavano durante il giorno. Ogni tanto ne scoppiavano trenta alla volta. La gente usciva per strada, ma solo con la regola “Il primo uccide”. Ramo il panettiere guidava per le strade il suo camion con all’interno i feriti.
Gli scoppi cessarono e a mezzogiorno calò il silenzio. Uscii a vedere cosa stessero facendo Edo e Dado. Sapevo che mio papà era da qualche parte nel quartiere. Mentre stavo percorrendo la via Miloševa, pensai che papà fosse andato dal fabbro al di là del fiume. Ci fu uno scoppio di granata mentre mi trovavo al centro di una radura, vicino alla diga di Naser. La mia preoccupazione più grande, in quel momento, fu correre da mia madre, così che vedesse che stavo bene. Correndo verso casa mi fermai a casa di mia zia e urlai: “Vado da mia madre, così non si preoccupa!”. Mia zia riuscì a malapena a tenermi in casa sotto il tavolo, con Edin e Dadin, assicurandomi che mia madre sicuramente sapeva che fossi a casa loro.
Nonostante tutto, eravamo abbastanza testardi da continuare a vivere le nostre vite normalmente. La mattina del 10 luglio andammo di sopra ad aiutare la nonna a rassettare la camera. Presi una coperta e andai in terrazza per scuoterla dalla polvere. Una granata scoppiò dietro la casa. La terra cadeva sul tetto come pioggia e passai circa dieci secondi attaccato al muro. Quando, intorno a mezzogiorno, cessò la confusione in mezzo ai bombardamenti, i miei genitori decisero di andare a casa di mia zia per compiere un rituale con del piombo, una vecchia tradizione che si credeva potesse aiutare a superare la paura e i traumi emotivi, visto che non avevo detto una parola dal momento dello scoppio di quella granata. Credevano che mi fosse successo qualcosa. Durante il rituale guardavo dentro la boccia con il piombo e l’acqua e continuavo a chiedere a mia zia: “Ma dove lo vedi il leone?”
Mia zia viveva a Kazani, mentre noi vivevamo in paese, che era abbastanza lontano per essere raggiunto a piedi sotto le bombe. Ancora oggi non mi è chiaro come riuscivano a dirsi, senza un telefono o qualunque altro mezzo, che ci saremmo incontrati a casa della mia altra zia, vicino alla stazione dei bus, a metà strada da casa loro.
Quando il rituale del piombo finì, non mi sentii meno spaventato. Poi i bombardamenti ricominciarono. Edo e Dado erano a casa nostra. Edo ed io eravamo nel mio rifugio vicino al congelatore, Dado vicino all’altro muro spesso. Qualcuno disse che le bombe stavano scoppiando per tutta la città vecchia, e iniziai a preoccuparmi per il mio amico Kemo.
La mattina di quell’11 luglio, gli spari iniziarono più presto ed erano più vicini che mai. Era un giorno caldo. Mamma e papà impacchettavano la nostra roba in borse di tela, così che, se mai fossimo dovuti fuggire, non andassimo a mani vuote come quando avevamo lasciato Drinjača (un villaggio sul fiume Drina, nella municipalità di Zvornik, a circa 40 km da Srebrenica). Mi sono alzato e ho preparato il mio zainetto con “Il piccolo principe” e l’enciclopedia “1000 domande – 1000 risposte”. I bombardamenti continuarono per tutta la mattina. Sempre più persone andavano via dalla città, correndo. Noi, follemente, stavamo aspettando qualcosa. Poi qualcuno dalla folla gridò: “I cetnici sono arrivati sulla piazza del mercato!”. Prendemmo le nostre borse, mio padre prese anche me come se fossi una borsa, e scappammo dalla collina, dov’era la nostra casa, per unirci alla folla di gente che fuggiva. Alle nostre spalle potevamo sentire gli scoppi.
Mi strappai la manica su una recinzione, mentre correvo. Era lo stessa recinzione spazzata via da una granata, che aveva ucciso dei bambini che giocavano a calcio di fronte alla nostra scuola. Forse mi ferii anche un braccio, ma al momento non sentii nulla. L’unica cosa che vidi fu mia madre che mi strappò da quella recinzione e poi corremmo a casa di mia zia Munevera. Per qualche motivo ci fermammo. Papà corse indietro verso il paese, mia mamma mi tolse lo zainetto dalle spalle, scosse via i libri e mi guardò. Io alzai solamente le spalle. Fu così che persi il mio Piccolo Principe. Quando mi vide così, congelato, mi consolò dicendo che i libri sarebbero stati troppo pesanti sulla mia schiena mentre fuggivamo. Tra me e me pensai che forse non sarebbero stati proprio così pesanti, ma rimasi in silenzio, niente sembrava avere più senso.
Un po’ dopo, mio padre venne a casa portando un sacco di farina bianca sulla schiena. Ci disse che alcune persone avevano fatto irruzione nel magazzino di Naser. Zia Munevera cucinò le frittelle. Avevo completamente dimenticato che non mangiavo da giorni e che ero affamato. Ne mangiai a malapena una. Presto ci separammo. Mio padre mi ingannò, dicendo che stava andando a prendere alcune cose e che poi ci avrebbe raggiunto, ma invece andò verso i boschi, in direzione di Tuzla. Incontrammo zia Sena e proseguimmo. C’era una folla intorno all’ospedale. Vidi alcune persone saltare giù dai balconi degli edifici vicini. Entrammo in uno di essi.
Non rimanemmo per molto tempo nell’oscurità di quel palazzo. Andammo avanti, ma non potevamo andare oltre l’ospedale. La gente cercava di entrare nel campo delle Nazioni Unite a Vezionica e qualcuno disse che Zulfo Tursun stava riportando indietro i ragazzi dall’ospedale. Qui perdemmo mia zia. Mia madre, mia nonna e io ci fermammo sotto uno degli edifici vicino all’ospedale, sopra Vezionica. Una granata esplose lì vicino. Prima mia nonna e poi mia madre mi coprirono, cercando di proteggermi dai vetri che cadevano dal palazzo. Ricordo che riuscivo a malapena a respirare, sotto di loro.
Quando la bomba esplose, le donne cercarono di forzare i cancelli e le recinzioni di Vezionica. Noi tre ci unimmo alla folla in strada. All’improvviso, in mezzo al rumore, sentii una voce familiare: Husnija!!!
Mio padre era tornato dai boschi. “Verrò con voi, vada come deve andare”. Una parte della recinzione di Vezionica finalmente si aprì. In qualche maniera mio padre mi portò dentro il campo ed entrammo nel garage dei veicoli dell’ONU. Un’altra bomba esplose. Schegge di proiettile fecero piccoli buchi attraverso le mura sottili del garage. Il sole filtrò. Avevamo perso mia madre. Avevamo perso mia zia. Non c’era la zia, né Edo, né Dado, né Keka, né zio Kiko. Solo noi due. Papà vide i soldati dell’ONU uscire da Vezionica con i loro camion. Mi prese e mi gettò nel rimorchio di un camion.
Aiutò molti altri a salire. La calca mi spinse ai lati. Riuscivo a malapena a girare la testa verso l’esterno, così da poter respirare. Realizzai che io e mio padre non ci tenevamo più per mano. La folla ci aveva separati. La gente continuava a salire sul camion e avevo sempre meno aria. Il veicolo giunse lentamente a un’altra base, la fabbrica “Akumulatorka”. Mio padre e io ci ritrovammo nell’oscurità del magazzino. Lungo la strada, vedemmo zio Ibro. Era su una barella.
La folla iniziò a riversarsi dentro la fabbrica. Papà riuscì in qualche modo a trovare una barella, così che potessi sedermi per un po’. Mi sedetti contro il muro, vicino all’entrata distrutta. La barella era bagnata. Bagnata di sangue. Mentre sedevo lì, i miei occhi erano puntati sulla porta, con la speranza di vedere entrare mia madre. Persi il senso del tempo. All’improvviso, apparve mia madre. Era tutta rossa, come se avesse appena fatto a botte. Ci individuò subito. Disse che gli uomini della UNPROFOR (la Forza di protezione delle Nazioni Unite) non volevano farla entrare, quindi aveva dovuto litigare con un soldato.
In qualche modo riuscì ad entrare. Papà andò a cercare dell’acqua. Portò una bottiglia che puzzava di benzina, con un po’ d’acqua dentro. Ci disse di aver ritrovato la zia, Edo e Dado, ma la nonna non si trovava da nessuna parte. Mamma disse che la nonna era rimasta in un’altra fabbrica con la nostra Keka, che era incinta.
Non sopportavo più le urla, la visione delle facce insanguinate e il grigiore di quella fabbrica. Mi appoggiai a una rientranza nel muro e credo di essermi semi-addormentato. Mi risvegliai pochi minuti dopo. Mia madre mi chiese perché non dormivo. Voglio vedere la zia. Ci andiamo dopo. Allora voglio andare al bagno. Mi portò dietro la fabbrica. C’erano persone insanguinate e lacerate, un sacco di feci e bende inzuppate di sangue dappertutto. Dissi che non riuscivo ad andare in bagno e non ci andai più.
A un certo punto, mia madre iniziò a cercare in mezzo alle nostre borse, nel panico. Prese una manciata di argenteria e corse a gettarla via. Dentro la fabbrica si sparse la voce che i cetnici stavano pattugliando la fabbrica vestiti da soldati dell’ONU e stavano cercando una scusa per portare fuori le persone e fucilarle.
Papà le chiese perché, in nome di dio, avesse quell’argenteria con sé.
“Come posso sapere dove andremo dopo e come staremo. Ho pensato che potesse esserci utile”.
Tutti i suoi gioielli erano ormai persi e ora stava gettando tutto il metallo che possedevamo.
Capì che non poteva più rifiutare le mie richieste, quindi, quando la gente smise di entrare, andammo a trovare la zia e lo zio Kika. Lo zio Kika era spaventosamente pallido. Era una persona con bisogni speciali, ma non era mai stato così spaventato come allora. Mia madre chiese alla zia dove fosse il mio giovane zio Senaid. La zia rispose che era fuggito attraverso i boschi. Mi avvicinai a Edo e Dado, mi sedetti vicino a loro su una coperta che copriva il cemento, che era duro e freddo.
Così tante persone mai viste prima erano ora intorno a noi. Non le avevamo mai viste, ma ci sentimmo come se le conoscessimo da sempre. Attraverso il capannone echeggiavano ondate di panico. Alle nostre orecchie arrivò la notizia che stavano portando fuori alcune persone e le stavano massacrando, stuprando e fucilando. Mamma e papà mormoravano con la gente intorno a noi che tutto sarebbe finito presto, che saremmo stati in salvo con le truppe dell’UNPROFOR, ma – mentre faceva buio – diventò evidente che stando dentro queste fabbriche eravamo, in realtà, in un campo.
In qualche modo passammo la notte… Misi di nuovo la testa dentro quella rientranza nel muro, mia madre si appoggiò su di me, come per coprirmi, per farmi sentire al sicuro. Tutto quello che sentii durante la notte furono gemiti, i pianti dei bambini e, da qualche parte lontano, dietro la fabbrica, le urla. Non so se sognai o se lasciai quel capannone con lo spirito, ma per tutta la notte davanti ai miei occhi ci furono Drinjača, il latte caldo di Pahljevic, i lamponi di Burinca, il tramonto a Konjevic Polje… tutto si mescolava casualmente nella mia testa, mentre la fabbrica instillava il suo odore e la sua oscurità nei miei ricordi.
Il trambusto e i rumori iniziarono molto presto la mattina. Nessuno ci disse cosa fosse successo, ma la gente si aggirava per il capannone, andando qua e là. Mio padre saltò su e uscì dalla porta per vedere cosa stesse succedendo. Più tardi arrivò con un piatto sottile, con una specie di zuppa e una fetta quasi trasparente di pane. La zuppa sembrava acqua sporca, il piatto era poco profondo, avevamo buttato via le nostre stoviglie e non potevamo nemmeno berla. Volevamo raccogliere la zuppa con il pane, ma si era sciolto al suo interno.
Mentre mi arrovellavo su come mangiare quel po’ di zuppa, mio padre raccontò a mia madre di come fosse stato con lo zio Ibro e di come lui non potesse ancora alzarsi dalla barella sulla quale lo avevamo visto il giorno prima.
Disse che era molto pallido e si era “prosciugato”. “Nessuno poteva fargli un’infusione”.
Chiesi a mamma e papà di lasciarmi andare a fare una passeggiata. Sul lato destro, da lontano, vidi che non c’era il muro e che entrava la luce. Quando arrivai a quel punto vidi un campo pieno di gente, proprio come la gente dentro la fabbrica, che cuoceva al sole nel campo aperto.
Quando tornai, non riuscii a raccontargli cosa avevo visto. Mia madre mi ordinò di sedermi e un uomo si accovacciò di fronte a noi. Ci chiese i nostri nomi, il mio e quello di mio padre. “L’UNPROFOR ci ha chiesto di segnare solamente gli uomini” ci disse. Papà disse che io ero Jasmin Jusufa Jusufović e lui scrisse. Oh, come fui orgoglioso quando mio padre pronunciò il mio nome in quel modo. Pensai, sono il figlio di mio padre, e nessuno potrà farmi nulla. Quando l’ispettore andò via, un uomo esclamò “Ma quali UNPROFOR… Cetnici!”
Papà, perché quell’uomo ha scritto solo i nostri due nomi?
Non lo so, forse per sapere quante persone ci sono qui…
Ma perché non ha scritto anche il nome della mamma? Scriverà il nome di Nica? Avrà scritto Keka e nonna? Chi scriverà il nome di Kika?
Non lo so, figliolo mio.
Mamma e papà stavano parlando con le persone intorno a noi. A noi nell’angolo arrivò la voce che avessero mandato dei cetnici in mezzo a noi, che stessero portando le persone in una casa bianca vicino alla fabbrica, per stuprarle e fucilarle. Ecco perché mia madre non mi aveva fatto andare da solo in quel campo, fuori all’aria aperta.
Per favore mamma, usciamo, prendiamo un po’ d’aria.
Non voglio, siediti.
Per favore mamma, solo per vedere il sole per un attimo.
Non voglio, siediti!
Ma mamma, andiamo da Nica, a vedere Edo e Dado, andiamo insieme.
Quando siamo arrivati…
Per favore mamma, voglio andare solo per poco in quell’angolo laggiù, mi vedrai dall’angolo di Nica.
Ogni mezzo minuto mi voltavo verso mia madre per farle un cenno ed essere sicuro che ci vedessimo ancora. Poi dal fondo della recinzione sentii grida, urla, e riuscii a capire che cosa stesse urlando quella voce femminile. Corsi da mia madre, così in fretta che pensai di poter tornare indietro nel tempo.
“Cos’è successo, cos’è stato quell’urlo?” “Non lo so, una donna stava urlando: ‘Sta calpestando suo figlio’”
“Chi ha calpestato il figlio di chi?” “Non lo so mamma, ho solo sentito una donna che urla ‘Sta calpestando suo figlio’”
Improvvisamente un silenzio da funerale cadde sulla gente. Tutti si ammutolirono, per un po’ non si sentì nemmeno un sussurro.
Più tardi, per passaparola, giunse la notizia che un cetnico aveva preso un neonato dalla donna che l’aveva appena dato alla luce vicino alla recinzione e l’aveva calpestato.
Non osai più dire che avrei voluto andare via. Non osai più chiedere neanche di andare dalla zia. Cercai solo quel buco nel muro per rifugiarvi la mia testa e immaginare Drinjača.
Quando si fece di nuovo notte, dissi, pensando di essere da solo: quando ce ne andremo da qui? Papà mi sentì, e pensando che avessi chiesto a lui rispose: “Domani ce ne andremo. Adesso dormi!”. Il 13 luglio, mi svegliò il panico nel capannone. Metà della gente nel capannone era in piedi, mamma stava di nuovo raccogliendo le poche cose che avevamo, e mi mise vicino il mio zainetto, in cui era rimasta solamente quella bottiglia che puzzava di benzina.
“Stiamo andando?”, chiesi. Nessuno mi sentì.
Il mormorio che gli altri giorni avevo potuto ignorare, come se fosse un rumore costante, quel mattino si era fatto più forte. La gente portava nuove notizie, sulla nostra sinistra una donna aveva ripreso conoscenza, un anziano era stato rimesso in piedi, una mamma cercava di far fare silenzio al figlio piccolo che urlava.
Dicevo a me stesso che non mi sarei comportato così. Che ero bravo, che non avrei urlato e pianto, che non avrei dato fastidio a mamma e papà. Tutti erano pronti per andare da qualche parte, ma non ci muovevamo. Quelli che si erano alzati in piedi si giravano e tornavano nello stesso posto.
Poco dopo, al fondo del capannone, dalla stessa parte da cui eravamo entrati, il portone si aprì, e la gente, come un fiume, iniziò a muoversi verso quella unica uscita. Noi non andammo verso quella porta, ma fu la folla a spingersi verso il centro del capannone, nel posto dove prima era seduta la zia, ma loro non c’erano più.
Improvvisamente ci fermammo vicino a un camion verde, ma la gente continuava a spingere verso la porta. Tirai la mano di mio padre e cercai di gridargli: “Papà, non riesco a respirare!”. Lui mi sollevò e mi mise sulle spalle. Ero alla stessa altezza del camion. E sul camion c’era gente. Quando ci muovemmo, e uscimmo fuori, il sole e il calore mi accecarono. Strinsi gli occhi.
Papà si accorse che non mi stavo più tenendo a lui, così mi mise tra lui e mamma, e mi tenevano per mano. Abbassai lo sguardo verso le gambe per fare abituare gli occhi alla luce.
Camminammo lungo una lunga fila di soldati. Vidi solo gli stivali, le gambe delle uniformi militari, i calci dei fucili. Ci ordinarono, gridando, che dovevamo cominciare a correre. Non mi abituai alla luce del sole finché non arrivammo sulla strada. Davanti a noi si presentava una colonna di camion e autobus, con i soldati sulla sinistra. Papà spinse me e la mamma davanti a lui, mamma mi teneva forte, avvolgendomi coi suoi vestiti. Era difficile correre così. Passammo uno, poi un altro autobus e un camion, finché qualcuno urlò “ENTRA!”, e mi trovai davanti a una scala di legno appoggiata al camion.
Pensai che, quanto più veloce avessi salito quella scala, quanto prima tutti e tre saremmo saliti sul camion, tanto prima tutto sarebbe finito. A metà della scala, dietro di me sentii un ordine: “Tu, scendi! Qui!” e sentii un trambusto. Riuscii a salire gli ultimi pioli e mi girai.
Mamma era seduta davanti alla scala, agitando le braccia, mentre giù per la strada un soldato spingeva mio papà con il fucile. Non vedevo più niente al di fuori di noi tre e di quel soldato. Mi sentii paralizzato. Papà fu spinto da quel soldato in un fosso a lato della strada, mentre un altro soldato urlava a mamma di salire. Mamma mi afferrò mentre ero impietrito e mi spinse dentro il camion. Continuai a guardare papà. Era in piedi nel fosso. Si girò verso di noi, come per accompagnarci con lo sguardo. Quando vide che lo guardavo, mise il dito davanti alla bocca come per dirmi “ssssh”, e agitò la mano come per dire “vai”.
Non sentivo, forse stavamo urlando, ma non sentivo. Mi ricordo solo che non riuscivo a muovermi per niente. Gli occhi rimanevano su mio padre. So che strinsi i denti forte, e che dentro di me volevo esplodere. Da lì mi vennero le lacrime agli occhi che annebbiarono la visione di mio padre. Riuscii solo ad alzare un po’ una mano, e nella mia testa pensai che lo stessi salutando. Lui ripeté solamente quel gesto, “Sssh! Vai”. Non aveva il suo solito berretto sulla testa. Pensai che avrebbe avuto caldo con quel sole.
Indossava una maglia a maniche corte, color crema, con larghe strisce azzurre. Un giubbotto di pelle consumato. Pantaloni neri e scarpe consumate, le uniche che aveva a Srebrenica. Sotto il braccio teneva la mia giacca rossa col cappuccio. E così rimase, guardandoci, “Sssh, vai”.
In quel momento fu come se qualcuno mi avesse preso dal camion e portato in cielo. Vidi che nel canale, attorno a mio padre c’erano molti più uomini. Dietro di loro vidi il grano maturo cullato dal sole e dal vento, mentre dal capannone usciva ancora gente, alcuni salivano sull’autobus. Vidi mamma sul camion come mi teneva, mi avvolgeva nel suo vestito e piangeva.
Da qualche parte un ragazzo saltò sul camion. Strisciò dietro alcuni barili che erano lì, e le donne gli lanciarono le fasce che avevano con sé. Quando il camion si riempì di gente, ci chiusero con un telone, e cadde totale oscurità, per cui di nuovo non vedevo nulla. Quando il camion partì, mormorai tra me e me “Papà sarà in un altro camion…”.
Il camion ci guidò a lungo e lentamente da qualche parte. Sotto il telone ci mancava l’aria. Improvvisamente ci fermammo. Tutti tacemmo. Sentii le porte del camion, e poi vidi un lungo asse di legno che apriva una parte del telone e gridava: Perché vi siete chiusi da soli, vi soffocherete, che dio vi maledica. Da quella parte aperta vedemmo che dalla strada su cui eravamo, da qualche parte di fronte a noi, bombardavano verso il bosco. Mi ricordai del mio zio più giovane, che era scappato per i boschi. Quell’asse di legno parlò di nuovo: Ehi, guardate un attimo, così non vi annoiate. In quello squarcio di luce attorno a me vidi un’anziana con la testa avvolta in una specie di benda insanguinata, e vidi che anche i suoi occhi erano coperti dalla benda, e poi tante donne. Non ricordo di avere visto un solo bambino.
L’asse di legno chiuse di nuovo il telone e il camion riprese la marcia. Molto dopo, il camion si fermò di nuovo, e mamma mi mise per terra, coprendomi con alcuni oggetti. Altre donne posarono altre cose su di me e poi avvertii qualcosa di molto pesante sopra tutte queste cose. Poi ascoltai una voce.
“Ci sono maschi qui?” Le donne risposero che non ce n’erano, ma poi ci fu un urlo. “Non c’è più nessuno, c’era solo lui! Non c’è più nessuno!”. Poco dopo, il camion ripartì. Quando ci fermammo di nuovo, ci scaricarono dal camion su una strada, sotto c’era un prato e un fiume, e sopra un altro prato, una casa e i soldati.
Ci mostrarono il cammino lungo la strada e ci dissero, ora andate su, su ci sono i vostri. Mamma e io siamo andati per la strada, eravamo solo lei e io. Dalla gente sentimmo che il posto in cui eravamo si chiamava Tišča. La strada su cui ci avevano diretti andava verso Kladanj. Camminammo per ore e ore, fermandoci ogni tanto per riprendere fiato. Lungo la strada c’erano alberi abbattuti, e dovemmo scavalcarne alcuni e passare sotto ad altri. Dai lati della strada ci dicevano: tutto dritto fino al tunnel, dopo il tunnel ci sono i vostri.
Il tunnel non si vedeva da nessuna parte, dopo ogni curva c’era un’altra curva, sotto la strada il fiume, sopra la strada la gola, e nella fessura della gola un po’ di cielo. Già iniziava a calare l’oscurità, e finalmente scorgemmo il tunnel. Attraversando il tunnel e, poco oltre, incontrammo mia zia Safeta, Niska e Niho. Quando mi vide, Niska si mise a urlare. La gola attorno a noi fu scossa dal suo urlo, e io rimasi paralizzato. Non ricordo che nessuno mi abbia mai abbracciato così forte, scuotendomi così tanto, come Niska in quel momento. Ripeté tra le lacrime: “Non c’è papà, non c’è mio papà”… Pensai che anche zio Muhamed fosse su un altro camion… E poi cominciai a piangere. Senza voce. Scendevano solo lacrime.
Da lì camminammo solo perché dovevamo farlo. Non ero in me. Ricordo solo in alcuni frammenti il finestrino dell’autobus che ci portava a Dubrave, e il cielo rosso nell’angolo di quel finestrino.
A Dubrave arrivammo che era già notte. Mamma e io ci aggiravamo a fatica in un mare di sagome sconosciute. Ci scontravamo con le persone. Alcuni correvano verso le cisterne, altri verso le tende. Poi mamma vide un lampione e ci sedemmo lì, su un mucchio di ghiaia. Fuori dal cerchio di luce del lampione, improvvisamente tutti caddero nell’oscurità, come se non ci fosse nessun altro nel mondo. Solo mamma e io, seduti su un mucchio di ghiaia, aspettando. Mamma mi disse: “Qui ci vedranno per primi”. Non sapevamo né chi ci avrebbe visti, né se ci avrebbe davvero visti. Stavo iniziando a perdere i sensi… quando improvvisamente qualcuno urlò i nostri nomi: Husnija! Jasko!
Non ce ne accorgemmo, non ci credemmo. Eppure, da quell’oscurità davanti a noi apparve la faccia di mio cugino Emir. “Husnija, sono io! Emir! Non mi riconosci!” diceva, e piangeva. Ci diede dell’acqua da bere. Ma io in certi momenti c’ero, in altri non c’ero. Mi ricordo di essermi svegliato nella sua macchina, e io ero al suo fianco, davanti a noi un’altra donna che non riuscivo a riconoscere. Vagando tra stato di coscienza e incoscienza, mi accorsi che ci avevano portato a casa. La donna del posto davanti mi fece salire dei gradini. Quando mi colpì la luce nella stanza al fondo della scala, vidi che dentro c’erano due ragazzi, e riconobbi che mi stava tenendo la mano mia cugina Kada.
Non so come, né quando, ma improvvisamente mi sono trovato vestito con abiti diversi, piazzato davanti a una tavola su cui c’era un pollo arrosto. Rantolai, persi il controllo, non sapevo cosa fare. Guardai Kada, poi quel pollo… Kada prese un pezzo di pollo, mi prese la mano, ci mise dentro quel pezzo e disse, – Dai, è pollo, mangia -. Quel pollo arrosto, e quel pezzo di carne nelle mie mani con cui non sapevo cosa fare, è l’ultimo ricordo di quella giornata. So che dormii, ma non mi ricordo come, dove e quando mi addormentai. Non riuscii più a essere presente in questo mondo quel giorno.
Tornai a Srebrenica per la prima volta nel 1999. L’ “Ambasciata dei Bambini” organizzò quella visita e improvvisamente mi trovai davanti i consiglieri comunali, con un microfono in mano, per dire qualcosa dopo l’intervento offensivo di una consigliera.
Dissi: “Guarda! Non ci avete ucciso tutti!” Mi ricordo che Duško Tomić, con cui ero venuto, impallidì, mentre giornalisti e camere si concentravano tutti improvvisamente su di me. Aggiunsi: “Sono sopravvissuto a mio padre, per volontà di dio, così che potrò testimoniare su mio padre e su ciò che è stato fatto a lui, che vi piaccia o no”. Non so da dove presi il coraggio. Dopo questo mi afferrarono, e ce ne andammo molto più in fretta di come eravamo arrivati. Non ebbi tempo di chiedere loro di restare ancora un po’, di guardare se da qualche parte c’erano ancora i miei libri, se c’era ancora qualcosa di papà, se c’era qualcuno a casa nostra, se avevano bruciato la mia slitta da neve.
Traduzione a cura di Alfredo Sasso e Maria Baldovin