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BOSNIA: Il monumento nomade fatto di memoria, partecipazione e caffè

Ogni anno, ogni 11 luglio, la piazza di una città diversa ospita il monumento nomade ŠTO TE NEMA (perché non ci sei?) sotto la guida dell’artista Aida Šehović, sua iniziatrice e oggi custode. 7856 fildžani (tazzine) vengono deposti in terra e riempiti di caffè per commemorare gli 8372 bosniaci musulmani uccisi nel genocidio di Srebrenica nel luglio del 1995. Il numero di tazzine, raccolte in giro per il mondo e regalate da famiglie bosniache, è destinato a crescere, fino ad averne una per vittima.

East Journal ha raggiunto Šehović a New York, città in cui vive e lavora, per scoprire di più sul progetto, la cui prossima edizione si svolgerà a Venezia. Nell’ambito della mostra collettiva Artivism: Atrocity Prevention Pavilion organizzata dall’Istituto Auschwitz per la pace e la riconciliazione (AIPR) presso Palazzo Dandolo Paolucci, l’evento avrà luogo in piazza San Giacomo di Rialto.

Per aiutare l’organizzazione, si ricercano volontari. L’iscrizione è aperta fino al 4 luglio.

Come nasce il progetto e perché hai scelto questo approccio performativo-partecipativo invece di creare qualcosa di duraturo e stabile?

Circostanze e ragioni sono cambiate molto da quando ho iniziato quattordici anni fa. All’epoca ero spinta da rabbia e frustrazione. Ero furiosa, forse stavo ancora elaborando il lutto. La guerra ha colpito la mia famiglia: siamo stati prima sfollati e poi rifugiati in Turchia e in Germania. Penso che ancora oggi ho difficoltà ad accettarlo.

Non si può cambiare il passato, ma almeno potevo prendere una posizione, cercando di ricordare le persone uccise. In un modo diverso dal solito però, non normalizzato. Si utilizza sempre la stessa formula e lo si fa in modo estremamente passivo che ti fa sentire impotente. L’idea di combinare il rituale del caffè con l’aspetto dell’assenza era più o meno chiara, ma due storie da Srebrenica mi hanno colpito particolarmente.

Puoi raccontarle? Come hanno influenzato il progetto?

La prima riguarda un giovane uomo che è riuscito a salvarsi restando nascosto per più giorni sotto ai cadaveri. Ho pensato molto su come contesto e circostanze esterne possano determinare la propria vita. La seconda storia invece è di una donna, che come molte ha perso suo marito. Ha parlato di quanto lui le manchi soprattutto nel bere il caffè. Questa testimonianza sottolinea come il senso di perdita sia qualcosa che continui nel tempo, che si manifesta nella vita di tutti i giorni. Mi ha fatto riflettere sul fatto di non avere una chiusura.

Il genocidio è un crimine contro l’umanità, contro tutti, perciò era importante per me avere un aspetto collettivo. Volevo aprire uno spazio per le persone affinché potessero contribuire. Così ho contattato l’associazione Zene Srebrenice (donne di Srebrenica) guidate da Hajra Catic, che hanno supportato l’idea raccogliendo le prime 923 tazzine, utilizzate nella performance di Sarajevo del 2006. Qui c’ero solo io a deporle in terra e versare il caffè. Svoltosi in uno spazio pubblico, si è trattato allora del primo evento del suo genere pensato come cordoglio collettivo lontano dal luogo dell’accaduto. Durante la performance la voce si è sparsa in tutta la città così velocemente che la gente e la stampa continuavano a venire. È stato molto intenso, ho capito la forza dell’arte e dell’azione collettiva.

Come si è evoluto il progetto nel corso degli anni?

L’idea di una possibile continuazione della performance, dell’evoluzione in monumento, non era previsto, e non poteva essere altrimenti. L’anno seguente invece sono stata invitata nella sede delle Nazioni Unite e la terza volta a Tuzla dalle donne di Srebrenica. Da questo momento in poi il progetto è divenuto di fatto partecipativo.

Alcuni elementi sono fissi, i cambiamenti sono avvenuti in maniera organica attraverso un processo costante di apprendimento e “fallimento” grazie a chi vi ha partecipato. Oggi è totalmente irrilevante che sia io a versare il caffè o che le tazzine siano disposte a forma di Bosnia ed Erzegovina. Lo scopo è aprire uno spazio che metta gli altri nella condizione di dar vita al proprio rituale. Non è più una performance in senso stretto ma un monumento vero e proprio in uno spazio pubblico. Una forma diversa dalla classica maniera di commemorare eventi o persone. Abbiamo un attaccamento alle cose, siamo ossessionati dall’avere qualcosa di fisico e penso che con ŠTO TE NEMA sia importante l’opposto, ovvero non soddisfare questo bisogno. Le persone devono restare con questo desiderio perché il genocidio non è un fatto risolto.

Non ci sono né bandiere né simboli per non creare possibili divisioni, così come è stato rimosso materiale informativo. L’assenza di parole scritte può essere frustrante, ma l’unico modo di scoprire di cosa si tratta, è parlare con le persone. Per questo motivo la presenza di volontari che facilitino la comunicazione è fondamentale.

Cosa intendi con memoria, e in cosa si differenzia dalla narrazione ufficiale che potrebbe avere un monumento fisico come lo conosciamo?

Fatti e dati sono ovviamente importanti ma penso che la maniera in cui si ricorda sia molto rimossa, irrilevante per noi. Impariamo numeri e date, ed è giusto così, ma non c’è “contenuto” nel modo in cui lo si fa. Ad esempio non capiamo come tutto si traduca nella vita di una persona. Ci sono stati volontari provenienti anche da Siria, Ruanda, sopravvissuti all’olocausto, persino qualcuno che ha perso una persona per via del cancro che improvvisamente comprende il senso di perdita. Esperienze diverse. Il punto cruciale è capire come poter parlare di memoria, ricordare in un modo umano. Un articolo di giornale, un’immagine o un libro di storia non permette di farlo. Sono informazioni che devono essere trasmesse, ma m’interessa creare una connessione diretta, qualcosa di intimo e tangibile. Più personale è il tipo di memoria che si condivide, più questa diviene rilevante.

Al tempo stesso penso al significato del termine monumento. Forse la memoria rimane finché la si mantiene viva, e questo comporta un impegno attivo, soprattutto quando si parla di memoria collettiva. ŠTO TE NEMA è un monumento esigente.

Anche le giornate ufficiali rientrano nella logica della memoria passiva?

Non lo so, non ci ho mai pensato in questi termini. L’unica cosa che so, è che ogni anno l’11 luglio so esattamente quello che farò. Non so se scegliere una data e dimenticare di celebrarla svuoti la cosa di significato. Penso che come esseri umani abbiamo bisogno della soluzione più semplice, di una formula che si possa ripetere costantemente. Al contempo credo fermamente nella forza dell’effimero, nel fatto che le persone si uniscano in un atto comune.

Come scegli le città?

Collaboro con tutti, prevalentemente con la diaspora. Quest’anno sono stata approcciata direttamente da un’istituzione. Sono io a scegliere la città, ma su invito. È molto importante, anzi parte delle condizioni del progetto. Non posso, e non voglio infiltrarmi. È la comunità che deve volere ŠTO TE NEMA, che se ne assume la responsabilità. Io mi prendo cura del progetto, è qualcosa di più grande di me che non posso interrompere, ma continuerò a farlo finché c’è un bisogno di ricordare. Normalmente il dialogo con una comunità dura per circa due anni prima di decidere, è una questione di fiducia che ripongo in persone sconosciute, si devono creare relazioni da zero.

A parte l’aspetto commemorativo e in un certo senso di “guarigione”, consideri il progetto anche come una dichiarazione politica?

Assolutamente! Viviamo in un mondo globalizzato, tutto ha implicazioni politiche e ci sono conseguenze a tutte le nostre scelte. Non ho nessun problema a definire il progetto politico. Ma faccio una grande attenzione affinché non venga politicizzato e quindi strumentalizzato. È orribile e vergognoso quando le vittime e i sopravvissuti vengono utilizzati per scopi politico-elettorali, ovunque. Il fatto di ricordare è una presa di posizione, si protesta contro l’atrocità.

Come viene percepito il progetto nel tuo paese d’origine?

Pur non vivendoci, posso dire che l’interesse è cresciuto negli anni. Ovviamente non posso parlare per l’intero paese, ma sicuramente il progetto non sarebbe sopravvissuto se i bosniaci non ci avessero creduto. Un aspetto fondamentale della mia motivazione è vedere l’effetto sulle persone di Srebrenica. Per loro è una sorta di antidoto contro l’oblio. Quando partecipano a ŠTO TE NEMA e vedono persone da altri paesi unirsi alla commemorazione, la vivono come un’esperienza catartica. Il progetto è prevalentemente per loro.

E nel resto della penisola?

L’anno prossimo il monumento verrà ospitato da Belgrado. Il mio sogno era proprio quello di poter portare il progetto in Serbia prima o poi, e il 2020 segna un doppio anniversario: 25 anni da Srebrenica e 15 anni di ŠTO TE NEMA. Sento che finalmente è il momento giusto, anche se non penso che la società serba in generale sia pronta. Il governo non l’ha ancora chiamato genocidio, è solo una piccola porzione della società che riconosce quanto accaduto. Sarà molto diverso rispetto agli altri anni, ne sono consapevole, perché l’opinione pubblica è ancora divisa. Il monumento deve essere aperto alla partecipazione di tutti, ma deve anche svolgersi in sicurezza in caso di contestazioni.

Qual’è la terminologia giusta per parlare di tutto questo?

Tutti quelli che si sono salvati sono sopravvissuti e non vittime, che sono invece i morti. Questa piccola distinzione è cruciale. Chi sopravvive ha la capacità di controllare la propria storia. Le vittime invece non hanno voce, gliene viene attribuita una. Poi veniamo noi, i testimoni. Siamo tutti testimoni delle atrocità, anche se non si è presenti fisicamente. Non è uno status passivo, in quanto si ha la grande responsabilità di preservare la memoria, educando e tramandando. Gli stessi fatti di Srebrenica sono genocidio, come è stato legalmente riconosciuto, e non massacro come invece sento spesso dire o leggo in articoli.

Foto: Manka Rabije. 12ema edizione di ŠTO TE NEMA, Daley Plaza, Chicago, 11 luglio 2017

Chi è Francesca La Vigna

Dopo la laurea in Cooperazione e Sviluppo presso La Sapienza di Roma emigra a Berlino nel 2009. Si occupa per anni di progettazione in ambito culturale e di formazione, e scopre il fascino dell'Europa centro-orientale. Da sempre appassionata di arte, si rimette sui libri e nel 2017 ottiene un master in Management della Cultura dall'Università Viadrina di Francoforte (Oder). Per East Journal scrive di argomenti culturali a tutto tondo.

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