Un’indagine internazionale per arrivare alla verità sui fatti di Kumanovo: questo è quanto hanno promesso i primi ministri di Kosovo e Macedonia durante un incontro avvenuto a metà dicembre. Nel quadro della prima visita ufficiale di un premier macedone in Kosovo, dunque, Zoran Zaev e Ramush Haradinaj si sono trovati d’accordo sulla necessità di fare maggiore chiarezza in merito a quanto successo nella città macedone di Kumanovo nel maggio del 2015. Qui, in una città storicamente multietnica ed immune ad ostilità tra gruppi nazionali, si consumò un conflitto a fuoco tra le forze di polizia macedoni e presunti terroristi albanesi, conclusosi con la morte di 18 persone, tra cui 8 agenti. Dopo due anni di indagini, a novembre il tribunale di Skopje ha emesso delle condanne di primo grado pesantissime contro 33 persone di etnia albanese, molte provenienti dal Kosovo, con l’accusa di terrorismo. La sentenza ha generato proteste in Kosovo, rischiando di alimentare tensioni tra Pristina e Skopje.
Le ombre su Kumanovo
La decisione di affidarsi ad un’indagine terza da parte dei due premier segna un passaggio importante, sicuramente un segnale positivo di chiarezza e cooperazione. Il caso di Kumanovo, dopotutto, resta un episodio di difficile interpretazione. Fin dalle ore successive agli scontri, difatti, si sono sollevati diversi dubbi riguardo alle motivazioni e agli attori coinvolti, come raccontato in un nostro reportage condotto in loco. Si era nel pieno della crisi macedone, un periodo di forti proteste popolari contro l’allora governo di centrodestra di Nikola Gruevski, accusato di aver organizzato un vasto piano di intercettazioni illegali di ben 20.000 cittadini macedoni. I sospetti che il conflitto armato di Kumanovo fosse stato orchestrato da apparati legati al governo per distogliere l’attenzione dallo scandalo intercettazioni e giocare la carta del nazionalismo per recuperare consensi non sono mai stati del tutto dissipati.
Le condanne
Le indagini del tribunale di Skopje, inoltre, hanno finito per aumentare i dubbi piuttosto che risolverli. I 37 imputati, alcuni dei quali con un passato di militanza nell’UÇK, l’Esercito di Liberazione del Kosovo protagonista della guerra contro la Serbia nel ‘98-‘99 e poi di un breve conflitto armato in Macedonia, hanno raccontato versioni diverse e discordanti tra loro. Mentre qualcuno ha rivendicato la volontà di un’azione armata, altri hanno raccontato di essere andati in Macedonia per una semplice conferenza stampa a tutela dei diritti della comunità albanese, trovandosi poi sotto attacco. Nonostante i tanti punti oscuri, a partire da chi ci sia dietro l’organizzazione del gruppo armato, la sentenza è stata particolarmente pesante, con ben sette ergastoli e condanne fino a 40 anni di carcere. Una tale durezza ha fatto scattare le proteste della comunità albanese, in Macedonia come in Kosovo. Nel corso delle proteste, delle bandiere macedoni sono state bruciate e sono stati alzati vessilli di sostegno ai propri “eroi nazionali” ingiustamente colpiti.
I toni concilianti
Inizialmente, il governo kosovaro non ha fatto molto per placare gli animi. Anzi, subito dopo la sentenza, il premier Haradinaj ha annunciato lo stanziamento di 219 mila euro per coprire le spese dei familiari dei condannati e delle vittime di etnia albanese. A quel punto, per qualche settimana si è corso il rischio tangibile di un’escalation delle tensioni sull’asse Skopje-Pristina. Proprio per questo, l’incontro dai toni concilianti avvenuto a Pristina tra Haradinaj e Zaev e l’annuncio della decisione congiunta di affidarsi ad un’indagine internazionale ha un grande valore. I due premier hanno confermato l’esistenza di rapporti eccellenti tra i rispettivi paesi e la volontà di cooperare il più possibile. Se a questo si aggiunge la successiva visita di Zaev in Albania, in cui gli stessi toni sono stati usati con il premier Edi Rama, è evidente che le ombre di Kumanovo e di un conflitto di natura etnica tra macedoni e albanesi si fanno sempre più lontane.