Da BELGRADO – Quello appena trascorso, è stato un week end di alta tensione geopolitica nella regione balcanica. A riaccendere la questione nazionale tra Serbia e Kosovo, questa volta, è stato un treno.
Dopo ben 18 anni, infatti, è ripartito dalla stazione di Belgrado un convoglio diretto per Kosovska Mitrovica, o meglio per il suo distretto settentrionale, principale città dei serbi del Kosovo. Il treno – dotato di motore a diesel e di fabbricazione russa – è stato decorato al suo interno con foto dei monasteri ortodossi nella regione mentre al suo esterno dai colori del tricolore serbo, nonché dalla scritta “il Kosovo è Serbia”, ripetuta in ben 21 lingue, incluso l’albanese. Ed è stata proprio questa la provocazione ritenuta inaccettabile a mandare su tutte le furie le autorità di Pristina.
La reazione, infatti, non si è fatta attendere: il Primo Ministro kosovaro Isa Mustafa ha disposto il dispiegamento di un’ingente numero di forze speciali sul confine, con l’obiettivo di impedire l’ingresso al treno “che porta provocatori messaggi nazionalisti”.
A Belgrado, invece, è arrivato l’ordine di fermare il treno a Raška, piccola cittadina ad una manciata di kilometri dal confine kosovaro, dopo che era stata diffusa la notizia che le rotaie erano state minate.
Il treno, dunque, non è mai arrivato a destinazione, lasciando spazio allo scambio di accuse. Il Primo Ministro serbo Aleksandar Vučić ha accusato le forze kosovare di voler far saltare in aria il convoglio e di voler minare il processo di pace. Vučić sostiene che senza il permesso della NATO le autorità di Pristina avrebberro disposto 17 mezzi pesanti sul confine, accompagnati dalle unità speciali.
Il presidente del Kosovo Hashim Thaci ha dichiarato che il paese rispetta il movimento di persone e mezzi ma che l’ingresso di un treno ricoperto da messaggi nazionalisti va contro la costituzione e ciò è pertanto inaccettabile.
L’intera faccenda ha scatenato le proteste dei serbi del Kosovo e il presidente della repubblica Tomislav Nikolić ha usato parole pesanti, sostenendo che Belgrado e Pristina sono state “sull’orlo del conflitto”. Alla domanda se avesse intenzione di mandare l’esercito in Kosovo, Nikolić ha risposto “sì, qualora venissero ammazzati dei serbi”. Una frase che pronunciata dalla più alta carica dello stato riporta alla mente quando fu Slobodan Milošević a dire “nessuno si permetterà più di picchiarvi”, che funse poi da preludio alle guerre jugoslave.
Da entrambe le parti sono poi arrivati i consueti messaggi distensivi nel nome della pace e della stabilità. Messaggi che danno in qualche modo l’idea di una messinscena orchestrata per spolverare la questione nazionalista, sempre utile nel compattare l’elettorato, considerato anche che ad aprile in Serbia si terranno le elezioni presidenziali.
Allo stesso tempo, però, è innegabile l’acuirsi della tensione, o perlomeno la mancanza di un clima disteso tra Serbia e Kosovo. Innanzitutto, per via dell’arresto in Francia dell’ex primo ministro Ramush Haradinaj sulla base di un mandato di cattura per crimini di guerra emesso da Belgrado, che ne chiede l’estradizione.
A febbraio ricorrerà il nono anniversario della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, riconosciuto ad oggi da 115 paesi, mentre la Serbia continua a rivendicarne la paternità, essendo stato per secoli parte del suo antico regno.
Dalla fine della guerra il processo di pace è andato a rilento e sembra bastare un treno per farlo saltare del tutto.
Foto: balkaninsight.com